L’Ocse ha aggiornato nel 2025 il commentario al modello di Convenzione contro le doppie imposizioni, inserendo per la prima volta linee guida specifiche sulle implicazioni fiscali per le imprese del lavoro da remoto svolto oltre confine.
Il tema è diventato centrale dopo la pandemia, quando lo smart working si è diffuso su scala globale creando un nuovo dubbio per imprese e lavoratori: lavorare da casa in un altro Stato può creare una “stabile organizzazione” con conseguenti obblighi fiscali per l’azienda?
Il nuovo commentario chiarisce che non esiste alcun automatismo: il fatto che un dipendente lavori da casa non significa che quell’abitazione diventi una sede dell’impresa. Serve sempre un’analisi concreta, basata su fatti e circostanze.
Tuttavia, l’Ocse introduce criteri più operativi – come la soglia del 50% del tempo di lavoro – e definisce quando esiste una reale “ragione commerciale” che può far scattare il rischio fiscale.
A questo link i documenti ufficiali
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1) Stabile organizzazione e lavoro da remoto in Europa
Secondo l’Ocse, per configurare una stabile organizzazione devono essere presenti più elementi contemporaneamente:
un luogo fisso, utilizzato in modo regolare, e soprattutto a disposizione dell’impresa. Ciò significa che la casa del lavoratore deve essere usata non solo per scelta personale, ma per reali esigenze dell’azienda.
Viene introdotto un criterio specifico:
- Se nel corso di 12 mesi il lavoratore svolge da casa meno del 50% delle ore complessive, di norma non si configura una stabile organizzazione.
- Se supera il 50%, occorre una verifica più approfondita.
Elemento decisivo è la “ragione commerciale”: la presenza del lavoratore nell’altro Stato deve portare un vantaggio all’impresa, come la possibilità di incontrare clienti, accedere a risorse locali o garantire servizi in tempo reale. Non sono invece sufficienti motivazioni legate alla comodità personale, al fuso orario o al risparmio di costi.
Gli esempi forniti dall’Ocse: non vi è stabile organizzazione in caso di utilizzo sporadico o limitato (es. 30% del tempo in smart working), mentre il rischio sale se il lavoratore opera per l’80% da casa e gestisce clienti nel Paese.
Attenzione anche ai casi in cui il dipendente è l’unico rappresentante dell’azienda nello Stato: in tali situazioni, l’home office tende a qualificarsi come luogo d’affari.
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