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RIFIUTO PRESTAZIONE LAVORATIVA: LA CASSAZIONE CHIARISCE I LIMITI PER IL LAVORATORE

Rifiuto prestazione lavorativa: la Cassazione chiarisce i limiti per il lavoratore

La Cassazione ribadisce che per il rifiuto della prestazione lavorativa l’eccezione di inadempimento datoriale ex art. 1460 c.c. richiede proporzionalità, causalità e buona fede

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Nel rapporto di lavoro subordinato, l’obbligo di reciproca correttezza e buona fede assume un ruolo centrale, soprattutto nei casi in cui una delle parti invochi l’inadempimento dell’altra. In tale ambito si colloca l’articolo 1460 del Codice civile, che disciplina l’eccezione di inadempimento, consentendo alla parte adempiente di sospendere la propria prestazione quando la controparte non rispetti gli obblighi contrattuali.

La giurisprudenza ha tuttavia precisato che tale facoltà non opera in modo automatico né costituisce un diritto assoluto. Il rifiuto del lavoratore deve infatti essere proporzionato, causalmente collegato all’inadempimento aziendale e mantenersi nell’alveo della buona fede.

Su questo punto  è intervenuta a Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 21965 del 30 luglio 2025, che offre un’importante occasione di chiarimento per datori di lavoro e consulenti, specie in presenza di contestazioni legate a trasferimenti, mutamenti di mansioni o mancata corresponsione della retribuzione.

 Vediamo i dettagli e un precedente caso di licenziamento per rifiuto di nuove mansioni ,   considerato invece illegittimo.

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1) Il caso Licenziamentoillegittimo per rifiuto di prendere servizio

La vicenda esaminata dalla Suprema Corte riguarda una lavoratrice assunta con qualifica impiegatizia, destinataria di un trasferimento verso una sede distante dalla precedente. Tale trasferimento era stato oggetto di ricorso giudiziario e, in sede cautelare, dichiarato illegittimo.

Nonostante ciò, la dipendente veniva successivamente assegnata a una nuova sede, con attribuzione di mansioni inferiori rispetto all’inquadramento contrattuale.

Contestualmente, la lavoratrice lamentava la mancata corresponsione delle retribuzioni per diversi mesi.

Di fronte a tali circostanze, la dipendente rifiutava di prendere servizio nella sede indicata dall’azienda, sostenendo che il comportamento datoriale fosse gravemente inadempiente. L’assenza veniva tuttavia contestata come ingiustificata e sfociava in un licenziamento per giusta causa.

Il tribunale e la Corte d’Appello ritenevano illegittimo il recesso, applicando la tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, come modificata dalla legge n. 92/2012. Entrambe le corti territoriali riconoscevano che la lavoratrice aveva reagito a una pluralità di condotte datoriali non conformi alla normativa, tra cui:

  • il trasferimento dichiarato illegittimo;
  • l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della qualifica;
  • il protratto mancato pagamento delle retribuzioni.

Questi elementi venivano valutati nel loro complesso, evidenziando come la reazione della dipendente non potesse considerarsi arbitraria ma, al contrario, coerente con il contesto e con gli obblighi di correttezza e buona fede che regolano il rapporto lavorativo.

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2) I criteri fissati dalla Cassazione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21965/2025, ha confermato integralmente l’analisi dei giudici di merito. Il cuore della decisione riguarda  pero le specifiche direttive concernenti l’applicazione dell’art. 1460 c.c. e i limiti entro cui il lavoratore può legittimamente rifiutare la prestazione.

Secondo la Cassazione, l’eccezione di inadempimento datoriale nel rapporto di lavoro:

  • non è mai un diritto assoluto per il dipendente;
  • richiede una valutazione comparativa dei comportamenti delle parti;
  • è ammissibile solo se il rifiuto è proporzionato e collegato all’inadempimento datoriale;
  • deve essere esercitato in conformità ai principi di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.).

Richiamando il proprio consolidato orientamento, la Corte ribadisce che il lavoratore non può sottrarsi alla prestazione ogni volta che ritenga illegittima una disposizione datoriale. La sospensione della prestazione è ritenuta legittima solo in casi di:

  1. totale inadempimento del datore;
  2. inadempimento grave, tale da incidere in modo rilevante sugli elementi essenziali del rapporto, come retribuzione e mansioni;
  3. reazione tempestiva e coerentemente collegata alla condotta aziendale.

Nel caso in esame, i giudici di legittimità hanno riconosciuto che la sequenza degli inadempimenti datoriali – trasferimento illegittimo, mansioni inferiori, retribuzioni non pagate – aveva inciso in maniera significativa sulla posizione della dipendente, giustificando il suo rifiuto di prendere servizio nella sede indicata.

La Cassazione ha  confermato dunque l’illegittimità del licenziamento, sottolineando che la reazione della lavoratrice non violava gli obblighi contrattuali, ma rappresentava una risposta adeguata a gravi e plurimi inadempimenti del datore.

3) Licenziamento per rifiuto mansioni diverse: Ordinanza n. 17270 del 24 giugno 2024

Diversamente, in un altro caso recente, con l'Ordinanza n. 17270 del 24 giugno 2024, la  Corte di Cassazione  ha respinto il ricorso di un dipendente, operatore ecologico, licenziato  per aver rifiutato di adempiere alla prestazione lavorativa.

Ad avviso della Suprema Corte, la Corte d'appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e di proporzionalità della misura espulsiva ed ha motivatamente valutato la gravità dell'infrazione.

In particolare è stato sottolineato  come il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione lavorativa secondo le direttive aziendali (nello specifico, di procedere alla conduzione dei veicoli  quale attività rientrante nel suo profilo professionale)  senza adeguata motivazione costituisse condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario e a giustificare il recesso datoriale.

Fonte immagine: Foto di Gerd Altmann da Pixabay
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