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PIÙ È COMPLICATO, PIÙ È GIUSTO? IL PARADOSSO ITALIANO DELLA CONSULENZA D’IMPRESA

Più è complicato, più è giusto? Il paradosso italiano della consulenza d’impresa

Più un concetto è complicato, più deve essere valido: indimidazione linguistica scambiata per autorevolezza

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C’è una strana convinzione, tanto diffusa quanto radicata, che affligge il mondo della consulenza e della gestione d’impresa, soprattutto in Italia. 

Un’assunzione non scritta, ma presente nelle pieghe di molte riunioni, nei documenti di lavoro, nei report di consulenza e perfino nei corsi di formazione: più un concetto è complicato, più deve essere valido. Se è difficile da capire, allora vuol dire che è serio. 

Se usa parole difficili, allora è professionale. Se è pieno di sigle, acronimi e inglesismi, allora è “moderno”.

È un meccanismo psicologico che conosciamo bene: l’intimidazione linguistica viene scambiata per autorevolezza. E così il linguaggio diventa una barriera invece che uno strumento. 

Un modo per escludere invece che per includere. Un vestito tecnico cucito su misura per pochi, e inutilizzabile da chi l’azienda la vive tutti i giorni.

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1) Quando la forma oscura la sostanza

Ci sono stati incontri in cui si è parlato di “strategic cost leadership” e “lean governance” con toni solenni, ma dove nessuno – nemmeno chi ha parlato – sembrava in grado di tradurre quei concetti in azioni concrete per la PMI che aveva di fronte.

Ci sono piani industriali di cento pagine in cui si parla di mission e vision, value proposition e canvas model, ma dove mancano completamente dati fondamentali come la marginalità per prodotto o la sostenibilità finanziaria a tre mesi. È tutto formalmente corretto, ma inutilizzabile.

Forse questa tendenza deriva anche dal nostro sistema formativo, che premia la teoria e punisce l’errore pratico. Forse nasce dal bisogno – umano e legittimo – di sentirsi competenti e riconosciuti. 

O forse è semplicemente un’abitudine culturale, che porta a pensare che ciò che è semplice sia “banale” e quindi meno autorevole. Ma nel mondo reale delle imprese, la complessità non è un valore di per sé. 

È qualcosa che va compreso, gestito, semplificato, non esibito.

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2) Il lavoro del consulente è fare chiarezza, non creare nebbia

Un buon consulente non è quello che arriva in azienda con una soluzione preconfezionata, confezionata in parole roboanti. È quello che si siede, ascolta, osserva, capisce i processi, i numeri, le persone. E poi, lentamente, costruisce insieme all’imprenditore un percorso comprensibile e attuabile.

È quello che spiega, non che complica. Che traduce i numeri in scelte, che fa parlare i costi, le marginalità, le dinamiche organizzative, senza infilarle in schemi astratti. 

È quello che sa usare un foglio Excel come strumento di dialogo, non di ostentazione.

Il linguaggio non è solo un mezzo di comunicazione. È un attrezzo operativo. Quando è chiaro, permette di agire. 

Quando è oscuro, blocca. Se un imprenditore non capisce cosa gli stai dicendo, non perché non sia intelligente, ma perché glielo stai spiegando nel modo sbagliato, allora la responsabilità non è sua. È tua.

La semplificazione non è banalizzazione. È fatica di precisione. Richiede capacità di sintesi, esperienza, concretezza. È molto più difficile scrivere due pagine chiare che dieci oscure. Ma solo in quelle due pagine l’imprenditore troverà qualcosa da cui ripartire.

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3) Un cambiamento culturale possibile (e urgente)

In Italia abbiamo bisogno di una cultura della direzione d’impresa più accessibile, più vera, meno autoreferenziale. Dobbiamo uscire dall’idea che il management sia solo per manager, o che la consulenza debba sempre parlare difficile per sembrare utile.

Serve un linguaggio che torni a parlare alle aziende e non su di esse. Serve una consulenza che non si limiti a fornire modelli, ma che li adatti, li spieghi, li semplifichi fino a renderli strumenti operativi per chi decide, per chi produce, per chi rischia.

Un bravo professionista – consulente, manager o docente che sia – è quello che sa rendere semplici anche i concetti più difficili. Non per renderli superficiali, ma per renderli vivi, applicabili, misurabili.

Non è complicando che si migliora l’impresa. È facendo ordine. Facendo chiarezza. Ridando senso alle scelte. Solo così si genera quel progresso vero che tante aziende, oggi, stanno cercando. Non nelle formule complesse, ma nelle risposte chiare.

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Fonte immagine: chatgpt
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