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RESTRUCTURING IN ITALIA: LA CRISI ALLA PROVA DEI FATTI

Restructuring in Italia: la crisi alla prova dei fatti

Strumenti di regolazione della crisi censiti dall’Osservatorio Unioncamere-InfoCamere: i dati ufficiali

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Nei primi sei mesi del 2025 le procedure e gli strumenti di regolazione della crisi censiti dall’Osservatorio Unioncamere-InfoCamere arrivano a 7.116 aperture, con un +29% rispetto al primo semestre 2024. 

1) Il termometro 2025: composizione negoziata in crescita, liquidazioni ancora dominanti

Il dato Unioncamere fotografa un sistema che “accelera” sulla gestione della crisi, ma non sempre sulla prevenzione: cresce il ricorso agli strumenti, non altrettanto la capacità di intercettare per tempo i segnali e trasformarli in piani credibili

Il quadro numerico è chiaro: nel I semestre 2025 la procedura più utilizzata resta la liquidazione giudiziale (ex fallimento) con 5.286 aperture, pari a circa tre quarti del totale

Parallelamente, la composizione negoziata consolida la propria traiettoria: 834 istanze nel semestre (quasi il doppio del I semestre 2024), segno che lo strumento sta diventando “normalizzato” anche per imprese non marginali. 

Restano invece su volumi più contenuti gli accordi di ristrutturazione dei debiti (168) e il concordato preventivo (511), mentre il concordato semplificato (esito possibile della composizione negoziata) si attesta su 63 procedure nel semestre. 

Questa dinamica racconta due “Italie della crisi”: da un lato, un bacino ampio di imprese fragili che arrivano tardi e sfociano in liquidazione; dall’altro, un segmento crescente che prova ad “anticipare” con strumenti negoziali o para-negoziali, spesso con l’obiettivo di preservare continuità (diretta o indiretta) e valore di filiera. 

Non è un dettaglio: la crisi d’impresa, oggi, non è solo evento contabile o legale, ma fenomeno sistemico con impatti su fornitori, lavoro, territorio e gettito.

2) La segmentazione dimensionale: chi usa cosa (e perché)

Il dato forse più utile per il professionista è la differenza di “profilo” delle imprese che attivano i vari strumenti. La composizione negoziata intercetta imprese mediamente più strutturate: nel I semestre 2025 il numero medio di addetti è 38 e il valore medio della produzione arriva a circa 11 milioni. All’opposto, la liquidazione giudiziale riguarda prevalentemente imprese “piccole e vulnerabili”: 6 addetti medi e 2 milioni di valore medio della produzione, con una presenza marcata nei settori commercio e costruzioni

Il professionista deve leggere questa segmentazione come una mappa operativa: gli strumenti non sono equivalenti, perché presuppongono (e producono) livelli diversi di trasparenza informativa, tenuta contabile, governance e capacità di generare consenso tra creditori.

È anche per questo che, a parità di cornice normativa, i tassi di successo e le traiettorie di esito divergono: non basta “scegliere lo strumento”, serve un’impresa in grado di reggerlo.

Tabella di sintesi operativa

Strumento (CCII)

Volume (I sem. 2025)

Profilo medio impresa (addetti / valore produzione)

Punto di forza operativo

Criticità ricorrente

Composizione negoziata (art. 12 ss.)

834

38 / 11M€

Flessibilità negoziale e possibilità di gestione anticipata

Richiede assetti informativi solidi e capacità di “tenere il tavolo”

Concordato semplificato (art. 25-sexies)

63

13 / 10M€

Uscita ordinata quando la trattativa non chiude

Rischio di essere percepito come “ripiego” se il piano non è robusto

Accordi di ristrutturazione (art. 57)

168

89 / 10M€

Target su imprese strutturate; utile per razionalizzare debito finanziario e “istituzionale”

Costi/tempi di costruzione del perimetro e gestione delle adesioni

Concordato preventivo (artt. 84 ss.)

511

36 / 9M€

Strumento giudiziale con regole note e architettura completa

Complessità, costi e tempistiche; execution risk elevato

Liquidazione giudiziale (art. 121 ss.)

5.286

6 / 2M€

Chiusura del rischio e regole chiare di liquidazione

Arrivo tardivo: distruzione di valore e “effetto domino” su filiere

(Dati: Osservatorio Unioncamere-InfoCamere, I semestre 2025)

 


3) La leva decisiva non è la procedura: è la diagnosi (e la qualità del dato)

L’errore più comune, nella pratica, è trattare il restructuring come un problema di “contenitore giuridico”.

 In realtà il vero collo di bottiglia è quasi sempre informativo: ricostruzione del debito (e delle sue cause), qualità dei flussi, credibilità del piano industriale, tracciabilità dei dati di magazzino e commesse, coerenza tra contabilità gestionale e bilancio, sostenibilità fiscale e contributiva.

Senza questa base, la procedura diventa un acceleratore di conflitti, non uno strumento di riallineamento. Qui si innesta la criticità italiana “storica”: gli adeguati assetti sono obbligatori, ma spesso vengono vissuti come costo e non come infrastruttura decisionale. Il risultato è che molte imprese arrivano alla crisi “con il quadro strumenti vuoto”: niente KPI solidi, niente forecasting, niente scenari, e quindi incapacità di dimostrare ai creditori (in primis banche, Agenzia Entrate-Riscossione, INPS) che esiste una traiettoria ragionevole verso la sostenibilità. 

Non a caso, mentre la composizione negoziata cresce, la liquidazione giudiziale resta la via statisticamente dominante. 

Per i professionisti, questo significa ritarare il perimetro dell’incarico: prima ancora di “accedere a”, occorre predisporre un crisis data room essenziale ma rigoroso (posizione finanziaria netta, ageing crediti/debiti, scadenziario fiscale e contributivo, marginalità per linea/prodotto/commessa, fabbisogno di circolante, sensitività su prezzi/volumi, covenant e garanzie). È lì che si decide l’esito, non nella rubrica dell’istanza.

4) Il nodo italiano: Fisco e tempi (la transazione è leva, ma la prassi deve maturare)

Nella crisi italiana, il creditore “sistemico” è spesso pubblico. Questo rende il tax restructuring una componente strutturale dei piani: non solo perché il debito tributario/contributivo pesa, ma perché incide su fattibilità, convenienza comparata e “tenuta” della continuità. Il CCII e i correttivi hanno ampliato gli spazi di interlocuzione, ma sul campo restano due frizioni tipiche. La prima è di natura temporale: la crisi evolve in settimane, mentre i processi decisionali dei creditori istituzionali possono richiedere mesi.

Ne deriva un rischio operativo: il piano è teoricamente sostenibile, ma il tempo necessario a ottenere consensi e formalizzare gli accordi fa saltare liquidità e continuità. La seconda frizione è interpretativa/applicativa: non basta che l’ordinamento “consenta”, serve che la prassi renda lo strumento prevedibile (criteri, istruttorie, standard documentali, check di convenienza, soglie di accettabilità). 

Per chi assiste le imprese, l’implicazione è concreta: la progettazione del piano deve essere proceduralmente consapevole, cioè costruita pensando a chi deve deliberare (banche, fisco, fornitori strategici) e ai loro vincoli interni. Un piano “giusto” ma non deliberabile è un piano che fallisce.

5) Un commento critico: il sistema cresce, ma la prevenzione è ancora l’anello debole

Se dovessimo sintetizzare l’attuale situazione italiana con un’immagine, potremmo dire che il Paese sta costruendo un toolkit di restructuring sempre più moderno, sofisticato e coerente con le migliori esperienze europee, ma continua a utilizzarlo prevalentemente quando il motore dell’impresa è già in avaria.

I dati più recenti mostrano con chiarezza questa ambivalenza: da un lato cresce il numero delle procedure e, soprattutto, aumenta in modo significativo il ricorso alla composizione negoziata; dall’altro lato, la liquidazione giudiziale resta ancora lo sbocco più frequente, in particolare per imprese di piccole e micro dimensioni. La crescita della composizione negoziata è, senza dubbio, un segnale incoraggiante. 

Lo strumento viene oggi utilizzato da imprese mediamente più strutturate rispetto alla fase iniziale di avvio (2021–2022), con volumi di fatturato più elevati, un numero maggiore di addetti e una governance più consapevole. 

Questo dato suggerisce che una parte del tessuto imprenditoriale ha iniziato a comprendere la logica del Codice della crisi: non attendere l’insolvenza conclamata, ma intercettare per tempo squilibri finanziari, tensioni di liquidità, criticità fiscali e operative. 

In questa prospettiva, la composizione negoziata sta lentamente passando da strumento “sperimentale” a vero e proprio canale ordinario di gestione anticipata della crisi. Tuttavia, accanto a questa evoluzione positiva, permane una frattura strutturale. 

La maggioranza delle procedure continua a concentrarsi sulle liquidazioni giudiziali, che coinvolgono imprese fragili, sottocapitalizzate, spesso prive di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili. Si tratta di imprese che arrivano alla procedura quando il margine di manovra è ormai ridotto, se non inesistente. In questi casi, il Codice della crisi non fallisce: semplicemente entra in gioco troppo tardi. Il problema, quindi, non è la carenza di strumenti, ma la scarsa capacità, o volontà, di utilizzarli in modo tempestivo. 

Qui emerge il vero nodo critico del sistema italiano: la prevenzione resta culturalmente debole. 

Gli adeguati assetti, pur essendo obbligatori da tempo, sono ancora percepiti da molte imprese come un adempimento formale o come un costo, e non come una leva di governo. 

La crisi continua a essere vissuta come un evento improvviso, quasi esogeno, piuttosto che come un processo che lascia segnali progressivi e leggibili. 

In questo contesto, il ruolo dei professionisti diventa centrale: commercialisti, consulenti, advisor e OCC sono chiamati non solo a “gestire procedure”, ma a svolgere una funzione di educazione economico-finanziaria dell’imprenditore, aiutandolo a interpretare numeri, flussi e rischi prima che diventino irreversibili.

Le implicazioni sono rilevanti anche sul piano sistemico. 

Ogni crisi intercettata tardivamente genera costi più elevati: per i creditori, che vedono ridursi le possibilità di recupero; per i lavoratori, che subiscono effetti occupazionali più traumatici; per il fisco, che spesso si colloca tra i principali creditori e deve affrontare esiti liquidatori con recuperi limitati. 

Al contrario, la prevenzione consente di preservare valore, mantenere continuità di filiera, ridurre l’impatto sociale e, non da ultimo, migliorare l’efficienza complessiva del sistema economico. In questa prospettiva, la sfida dei prossimi anni non sarà tanto introdurre nuovi strumenti, quanto trasformare quelli esistenti in veri processi di governo. 

La composizione negoziata, gli accordi di ristrutturazione, i piani attestati e persino il concordato preventivo funzionano solo se inseriti in una logica anticipatoria, supportata da dati affidabili, assetti adeguati e una governance disposta a cambiare. 

Se invece restano strumenti “di ultima istanza”, il rischio è che il restructuring diventi una normalità patologica, più che una leva di rilancio.

Il Codice della crisi ha tracciato una direzione chiara: prevenire non è retorica, ma una scelta economica razionale. 

La vera partita, oggi, non si gioca nei tribunali, ma nelle imprese e negli studi professionali, molto prima dell’apertura di una procedura.

È lì che si decide se la crisi sarà governata o semplicemente certificata.


Fonte immagine: chatgpt
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