Il Tax Control Framework (TCF) si conferma strumento centrale della riforma fiscale, evoluto da modello aperto a sistema certificato e standardizzato.
Il nuovo assetto, definito da DM 9 luglio 2025 e provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate, impone alle imprese presidi documentali e controlli integrati con i sistemi contabili.
Se per le PMI italiane i costi di implementazione restano critici, le subsidiary di gruppi esteri possono più facilmente adeguarsi grazie a strutture di governance già consolidate.
La certificazione, affidata a professionisti indipendenti, valorizza il ruolo dei commercialisti. Restano aperte sfide di premialità e proporzionalità, decisive per il futuro successo del modello.
La stagione delle riforme fiscali degli ultimi due anni ha profondamente ridefinito il perimetro del Tax Control Framework (TCF), trasformandolo da modello aperto, affidato alle scelte organizzative delle imprese, a sistema certificato e standardizzato.
L’intento del legislatore, esplicitato a partire dalla legge delega 111/2023 e poi tradotto nei decreti legislativi 221/2023 e 108/2024, è quello di estendere la logica della cooperative compliance a un numero crescente di contribuenti, rafforzando al contempo gli strumenti di prevenzione e gestione del rischio fiscale.
Con il DM 9 luglio 2025 e i provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate del 10 gennaio e del 7 agosto 2025, si è delineato un quadro che presenta al professionista nuove sfide:
- da un lato la necessità di supportare le imprese nella progettazione e certificazione del TCF,
- dall’altro l’opportunità di assumere un ruolo da protagonista come certificatore indipendente.
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1) Dal modello aperto al modello certificato: la nuova architettura del TCF
Il primo profilo che emerge dall’analisi della disciplina è il passaggio da un modello aperto, basato su logiche organizzative interne validate ex post dall’Amministrazione, a un modello certificato e standardizzato, fondato su presidi documentali e procedure minime comuni. Il DM 9 luglio 2025 individua con chiarezza la documentazione necessaria per l’esercizio dell’opzione: descrizione dell’attività d’impresa, strategia fiscale approvata dagli organi sociali, Tax Compliance Model, mappa dei processi e dei rischi fiscali – inclusi quelli derivanti dai principi contabili – e, soprattutto, la certificazione del sistema.
Le Linee guida sono state approvate con il Provv. AdE 10 gennaio 2025, prot. 5320/2025 (Tax Compliance Model e RCM per il settore industriale) e con il Provv. AdE 7 agosto 2025, prot. 321940/2025 (RCM per il settore assicurativo), integrati dal Provv. AdE 7 agosto 2025, prot. 321934/2025 con le istruzioni sulla mappatura dei rischi derivanti dai principi contabili, corredate da schede tecniche dedicate a casi specifici come swap, diritto di superficie e obbligazioni convertibili, che orientano le imprese nell’individuazione dei rischi di compliance collegati all’applicazione dei principi contabili. In tal modo si è introdotta una connessione strutturale tra TCF e sistemi di controllo dell’informativa finanziaria: per le società che già adottano presidi di controllo sull’informativa finanziaria (ad esempio il modello ex L. 262/2005 o framework ispirati al Sarbanes-Oxley Act) è possibile evitare duplicazioni, integrando nella RCM fiscale i controlli contabili chiave già presidiati da tali sistemi, in coerenza con le Linee guida dell’Agenzia delle Entrate (prot. 5320/2025 per il comparto industriale) e con le istruzioni e schede tecniche approvate il 7 agosto 2025 (prot. 321934/2025 sui rischi derivanti dai principi contabili e prot. 321940/2025 per il settore assicurativo).
La logica è chiara: rendere effettivo il principio di derivazione rafforzata tra bilancio e imponibile fiscale, riducendo gli spazi di discrezionalità e assicurando che i rischi fiscali siano intercettati già in sede di redazione contabile. Si tratta di un salto culturale che, se da un lato impone alle imprese una maggiore strutturazione, dall’altro valorizza il ruolo del commercialista quale garante di coerenza tra contabilità, fiscalità e governance.
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2) Il TCF opzionale e le diverse platee di contribuenti
Accanto al regime ordinario di cooperative compliance, il legislatore ha introdotto, con l’art. 7-bis del DLgs. 128/2015 e successive modifiche, un regime opzionale di adozione del TCF destinato alle imprese di dimensioni inferiori. La documentazione deve essere munita di data certa anteriore alla comunicazione (art. 3, co. 5 DM 9 luglio 2025) e trasmessa telematicamente all’Agenzia delle Entrate (art. 4). L’opzione è irrevocabile per il primo biennio e si rinnova tacitamente per ulteriori due periodi d’imposta, salvo revoca espressa o decadenza (art. 6). I benefici sono subordinati alla presentazione di un interpello ammissibile ai sensi dell’art. 11 della L. 212/2000, come previsto dall’art. 5, comma 3, del DM 9 luglio 2025; in presenza di interpello ammissibile operano l’inapplicabilità delle sanzioni amministrative e la non punibilità per le condotte riconducibili all’art. 4 del D.Lgs. 74/2000, nei limiti e con le esclusioni indicate dall’art. 7-bis del D.Lgs. 128/2015 e dallo stesso DM, restando escluse le ipotesi di elementi passivi inesistenti e di condotte simulatorie o fraudolente che pregiudicano l’affidamento tra contribuente e Amministrazione.
Tuttavia, l’impatto pratico varia sensibilmente tra PMI italiane e subsidiary di gruppi esteri.
Le prime, spesso caratterizzate da governance informale e da scarsa strutturazione dei processi, percepiscono i costi di implementazione e certificazione come sproporzionati rispetto ai benefici. Non a caso, molte di esse preferiscono continuare a ricorrere al ravvedimento operoso, che offre riduzioni sanzionatorie significative senza l’onere di un sistema complesso. Al contrario, le controllate italiane di gruppi multinazionali, pur non rientrando nei parametri dimensionali della cooperative compliance ordinaria, si trovano già inserite in contesti di controllo interno evoluti (collegi sindacali, revisione esterna, modelli 231, procedure contabili segregate). Per queste imprese l’adozione del TCF opzionale rappresenta un’estensione naturale, in grado di rafforzare la coerenza con le politiche di gruppo senza incidere eccessivamente sulla gestione corrente.
Resta, però, un tema di premialità differenziata: l’assenza di alcuni benefici tipici della cooperative compliance ordinaria (riduzione termini accertamento, interlocuzione preventiva rafforzata, abbattimento sanzioni per rischi non significativi) rischia di rendere meno attrattivo il regime opzionale. È pertanto auspicabile un ampliamento dei vantaggi, soprattutto in materia di rimborsi d’imposta e riduzioni sanzionatorie, per rendere più equilibrato il rapporto costi/benefici.
3) La certificazione e il ruolo dei professionisti
L’elemento di maggiore innovazione è senza dubbio l’obbligo di certificazione del TCF, introdotto dal DLgs. 221/2023 e disciplinato dal DM 9 luglio 2025. A partire dal 2025, le imprese devono rivolgersi a certificatori indipendenti iscritti negli elenchi istituiti dal D.M. 12 novembre 2024, n. 212 (GU 3 gennaio 2025, n. 2) e disciplinati dai regolamenti CNDCEC/CNF. Per i soggetti esonerati, la presentazione delle domande è stata resa possibile da luglio 2025, mentre i percorsi formativi abilitanti per gli altri profili hanno preso avvio da settembre 2025, con priorità di istruttoria per i professionisti esentati dalla formazione. Tra questi figurano, alla luce del protocollo d’intesa dell’11 aprile 2025 tra Consiglio nazionale dei commercialisti, Consiglio nazionale forense, MEF e Agenzia delle Entrate, coloro che sono iscritti con continuità da almeno cinque anni all’albo degli avvocati o alla sezione A dell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e che, al contempo, sono professori ordinari di discipline aziendalistiche e tributarie.
Il percorso di qualificazione è stato definito con il protocollo d’intesa del 11 aprile 2025 tra Consiglio nazionale dei commercialisti, Consiglio nazionale forense, MEF e Agenzia delle Entrate, che ha stabilito criteri, percorsi formativi e casistiche di esonero.
In prospettiva, il ruolo del commercialista si arricchisce: non solo consulente nella progettazione del modello e nella redazione dei documenti richiesti (strategia fiscale, TCM, RCM), ma anche certificatore indipendente, con funzioni di garanzia analoghe a quelle del revisore. È un passaggio cruciale per rafforzare la credibilità del sistema e, al contempo, una significativa opportunità professionale.
Sul piano operativo, la certificazione non è un mero adempimento formale, ma richiede la verifica dell’efficacia dei controlli e della coerenza tra processi, rischi e presidi.
Attualmente non risultano provvedimenti ufficiali del MEF o dell’Agenzia delle Entrate che dispongano la proroga dei termini di certificazione per le prime istanze; restano quindi ferme le scadenze previste dal DM 9 luglio 2025.
Nel medio periodo, la sfida sarà conciliare rigore tecnico e proporzionalità, evitando che il TCF diventi un onere burocratico fine a sé stesso e valorizzandone, invece, il contributo alla qualità dell’informativa fiscale e finanziaria.
4) Considerazioni conclusive
Il TCF rappresenta oggi uno snodo fondamentale della riforma fiscale italiana: uno strumento al tempo stesso di compliance e governance, che obbliga le imprese a ripensare i propri processi e apre ai professionisti nuove prospettive di intervento. Se per molte PMI il bilancio costi/benefici resta problematico, per i gruppi internazionali e per i soggetti più strutturati il sistema appare già integrabile con le logiche di controllo esistenti.
Il successo del modello dipenderà dalla capacità del legislatore di garantire incentivi adeguati e di calibrare i requisiti in base alla dimensione e alla complessità delle imprese. Per i commercialisti, la sfida è duplice: da un lato supportare le aziende nella costruzione di presidi efficaci, dall’altro assumere un ruolo di certificatori indipendenti, con responsabilità crescenti ma anche con la possibilità di diventare protagonisti di una stagione di maggiore trasparenza e certezza nei rapporti tra fisco e contribuente.