Negli ultimi anni il dibattito sui poteri del giudice tributario ha assunto un ruolo sempre più centrale, non solo per gli studiosi ma anche per chi quotidianamente opera nelle aule di giustizia tributaria.
La questione è tutt’altro che marginale: dall’interpretazione del ruolo del giudice dipendono l’effettività della tutela del contribuente e, al tempo stesso, la certezza del prelievo per l’Amministrazione finanziaria.
L’orientamento oggi consolidato, riaffermato con decisione dall’ordinanza n. 6016 del 6 marzo 2025, chiarisce che il processo tributario non può ridursi alla semplice eliminazione dell’atto impositivo.
La decisione del giudice deve sostituire quella dell’Ufficio, determinando la misura effettiva dell’imponibile e dell’imposta.
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1) Il giudice tributario e il dovere di rideterminare l’imposta
Il fondamento si rinviene nell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992, che definisce l’ambito della giurisdizione tributaria, disposizione che la giurisprudenza di legittimità ha interpretato nel senso di attribuire alle Corti di giustizia tributaria il ruolo di giudice del rapporto e non solo della regolarità formale dell’atto.
In tale prospettiva, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, con un orientamento così consolidato da configurare “diritto vivente”, ha più volte chiarito che il processo tributario è un giudizio di “impugnazione-merito” e non di “mero annullamento” (tra le molteplici, Cass. ord. n. 19079/2009, sent. n. 10396/2011 e ord. n. 11433/2023).
Un passaggio significativo è rappresentato dalle sentenze n. 19750/2014 e n. 13297/2016 della Corte di cassazione: entrambe hanno chiarito che, quando l’accertamento si fonda su ricostruzioni induttive o criteri estimativi e risulta solo parzialmente corretto, il giudice non può arrestarsi all’annullamento, ma deve rideterminare direttamente la misura dell’imponibile e dell’imposta, evitando pronunce meramente demolitorie.
Successivamente, le ordinanze n. 25629/2018 e n. 18777/2020 hanno precisato che, quando l’accertamento è solo in parte fondato, il giudice tributario non deve limitarsi a dichiararne l’illegittimità, ma ha il dovere di rideterminare la pretesa entro i limiti del petitum. La riduzione dell’imposta non rappresenta un vizio di extrapetizione, bensì costituisce il fisiologico esercizio del potere–dovere di decidere sul merito del rapporto tributario.
Le decisioni del 2021 (Cass. sent. n. 3080 e ord. n. 39660) hanno ribadito che il giudizio tributario è di impugnazione–merito e che il giudice, una volta riscontrata la parziale fondatezza della pretesa, non può limitarsi ad annullare l’accertamento. Tale principio trova fondamento anche nell’art. 35, co. 3, del D.Lgs. 546/1992, che esclude sentenze sull’“an” o condanne generiche e impone al giudice di definire il quantum della pretesa tributaria.
Il caso deciso con l’ordinanza n. 6016/2025 è emblematico: la CTR, pur ritenendo inattendibile la ricostruzione dell’Ufficio, aveva annullato integralmente l’accertamento senza rideterminare la percentuale di ricarico.
La Suprema Corte ha cassato con rinvio la pronuncia della CTR, ribadendo un principio ormai imprescindibile: quando l’accertamento è solo parzialmente fondato, il giudice deve procedere egli stesso alla riquantificazione, senza limitarsi a eliminare l’atto.
In tale prospettiva, la Corte ha dato continuità a precedenti che avevano già affermato la funzione sostitutiva del giudizio tributario (tra cui Cass. sent. n. 1018/2008 e ord. n. 7695/2020). È stato inoltre ricordato che, grazie ai poteri istruttori riconosciuti dall’art. 7 del D.Lgs. 546/1992, il giudice può acquisire gli elementi necessari per ricondurre la pretesa fiscale entro limiti corretti, esercitando un ruolo di garante e non di accertatore in senso amministrativo.
Sul piano pratico, questa impostazione comporta conseguenze rilevanti.
La difesa del contribuente non può limitarsi alla critica dell’atto, ma deve affiancare a questa l’indicazione di criteri e parametri alternativi nei confini del petitum, così da mettere il giudice in condizione di rideterminare correttamente l’imposta. Dal canto loro, i giudici devono assumersi la responsabilità di quantificare l’imponibile, evitando pronunce di mero annullamento che genererebbero ulteriore incertezza, salvo che ricorrano vizi formali così gravi da impedire l’esame nel merito.
La giurisprudenza ha chiarito che, quando l’accertamento si riduce a meri conteggi aritmetici, il giudice deve fissare in sentenza criteri e limiti quantitativi vincolanti, lasciando all’Ufficio una semplice attività esecutiva priva di discrezionalità. In tal modo si garantisce che la determinazione del quantum resti compito esclusivo del giudice, come affermato dalla Cassazione (sent. nn. 1018/2008, 19750/2014, 13297/2016 e 4884/2013) e dalla CTR Lombardia (sent. n. 3298/2022).
Viceversa, come espressamente chiarito dai Giudici di legittimità nella sentenza n. 4484/2013, le prescrizioni sulla base delle quali il giudice tributario può demandare all’Ente impositore la rideterminazione del maggior tributario accertato e/o delle sanzioni amministrative, devono essere prive di elementi di tipo valutativo.
In conclusione, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale culminata nella recente ordinanza n. 6016/2025 segna una conferma definitiva: il processo tributario è sede di accertamento sostanziale.
Il giudice non può limitarsi a invalidare l’atto impositivo, ma deve sostituirsi all’Ufficio nella corretta determinazione dell’imposta entro i limiti del petitum.
Per i professionisti questo significa predisporre difese capaci non solo di contestare, ma di orientare il giudice verso la giusta quantificazione, fornendo tutti gli elementi utili affinché la pronuncia sia realmente sostitutiva, come oggi la Cassazione non solo riconosce, ma considera un vero e proprio dovere.
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