Con l’Ordinanza 22 settembre 2021 n. 25622 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Cirillo, Rel. Fracanzani) si tratta il caso di una contribuente alla quale era stata versata somma di lire 1.250.000.000 in relazione ad un accordo transattivo con una società. La transazione (giudiziale) aveva ad oggetto una villa sita in Cortina.
L’Agenzia delle Entrate aveva qualificato l'importo alla stregua di un corrispettivo derivante dall'assunzione di obblighi di "fare, non fare o permettere", contestandone l'omessa dichiarazione tra i redditi diversi.
I due gradi di merito sono stati favorevoli alla contribuente e la Suprema Corte ha confermato tale impostazione dei giudici di merito, respingendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.
Vale allora la pena di trattare un attimo dei riferimenti privatistici e fiscali della questione per tornare poi alla lettura della interessante pronuncia della Suprema Corte.
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1) Il danno patrimoniale e non patrimoniale.
Il danno patrimoniale è correlato all’alterazione della utilità patrimoniale legata al godimento di un bene o ad un rapporto giuridico . Ai sensi dell’art. 1223 del c.c. si può identificare nelle due diverse voci di:
- danno emergente, quale perdita patrimoniale concretamente patita, per effetto dell'inadempimento o dell’inesatto adempimento di un’obbligazione o, nel caso di illecito extracontrattuale, in conseguenza del fatto illecito altrui.
- lucro cessante, ovvero il mancato guadagno, intendendo per gudagno il flusso patrimoniale che si sarebbe prodotto in assenza di inadempimento o di fatto illecito.
Il danno non patrimoniale è previsto all’art. 2059 del c.c., ed è inteso come lesione psicofisica (es. la sofferenza interiore, l'invalidità fisica e psichica, il peggioramento della qualità della vita di una persona) ovvero la lesione di quegli interessi che non hanno direttamente un valore economico, generalmente connessi alla persona e non direttamente alla sua sfera economica.
Per ciò che riguarda i nostri scopi possiamo fermarci qua e andare sul dato normativo di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR, Testo Unico delle Imposte sui Redditi).
Si tratta della regola generale che scinde le categorie di redditi soggetti a tassazione per cui vengono identificati nel comma 1: redditi fondiari; di capitale; di lavoro dipendente; di lavoro autonomo; d’impresa e diversi. Questo come presupposto alla tassazione per categorie, appunto, ovvero con l’applicazione di regole specifiche per ogni tipologia reddituale. Il comma 2 dell’art. 6 contieme poi una precisazione importante nel contesto di cui parliamo. Quella per cui, in caso di proventi, indennità o risarcimenti sostitutivi di redditi, le somme riscosse, eventualmente anche per effetto di cessione dei relativi crediti, saranno assimilate ai redditi della stessa categoria di cui al comma 1.
Quindi in generale le indennità incassate a titolo risarcitorio, allorquando abbiano una funzione sostitutiva o integrativa del reddito del percipiente, devono essere considerate redditi imponibili.
Ma la funzione integrativa è presente solo quando l’indennità vada a compensare il lucro cessante. Mentre quando il risarcimento è collegato al danno patrimoniale emergente oppure quando va a ristorare il soggetto rispetto a danni non patrimoniali non vi è un collegamento ad un reddito, seppur perduto e reintegrato. E dunque il Legislatore non ravvisa in ciò una capacità contributiva.
Vale solo la pena ricordare che alla regola fa eccezione il caso dei risarcimenti per perdita di redditi dipendenti da invalidità permanente o da morte: in questo caso anche il lucro cessante non genera tassazione ai sensi del comma 2 dell’articolo 6 citato.
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2) La questione contrattuale.
E’ nota la storiella del parroco molto goloso che venne invitato a pranzo di venerdì. Trovandosi di fronte ad un tacchino arrosto e con i commensali che gli ricordavano il precetto che impediva di mangiare carne in quello specifico giorno, alzò il braccio e benedisse il tacchino, borbottando in latino: “ego te baptizo piscem” (ti battezzo pesce). E si precipitò all'arrosto.
E’ evidente che quando le parti si accordino in via stragiudiziale, compresa la mediazione o anche a giudizio iniziato, potrebbe riproporsi la pratica appena menzionata di cambiare nome alle cose per dare l’impressione che sia cambiata anche la sostanza, come appunto battezzare “pesce” la carne per poter rispettare il precetto del digiuno del venerdì. Assegnare per esempio un bene a una parte e poi definire risarcimento la perdita del possesso da parte dell’altra sarebbe un modo fin troppo semplice per mascherare una cessione.
La questione non è di facile soluzione, perché se anche A e B esprimono le proprie volontà in un atto transattivo non si può ignorare che tra essi possa esservi una intesa per ridurre il carico fiscale generato dagli atti conseguenti all’accordo.
Un’idea potrebbe essere quella di coinvolgere negli accordi dei professionisti. Ma se è vero per esempio che per i Notai vi sono orientamenti deontologici molto rigorosi, che pongono l’indagine sulla reale volontà delle parti come elemento centrale della attività professionale, si riscontra un orientamento di Cassazione che la mette in secondo piano rispetto all’interpretazione di tale volontà fatta al di là della sua stesura tecnica da parte del notaio. Nella ordinanza n. 21858/2020 della Seconda Sezione Civile del 1° luglio 2020 la Cassazione in un caso del genere, osserva che “Inoltre, non è appagante il richiamo al fatto che la clausola sia stata redatta da un tecnico del diritto quale è il notaio, poiché l’interpretazione del contenuto del contratto va condotta con riferimento alla volontà delle parti stipulanti, non del notaio; di talchè la consapevolezza di quest’ultimo sul significato tecnico delle espressioni utilizzate non soltanto non è rilevante, ma appare addirittura fuorviante, ai fini dell’indagine sulla effettiva volontà dei paciscenti”.
Allora vanno applicate le regole dell’articolo 1362 del codice civile per le quali nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Ciò valutando, come dice il secondo comma, il comportamento complessivo delle parti stesse anche posteriore alla conclusione del contratto stesso.
In ambito tributario è ovvio che vi sarà l’interesse dell’amministrazione finanziaria, in taluni casi, a disattendere il tenore letterale del contratto (nel caso in commento della transazione) cercando di spostare materia risarcitoria per danno emergente o per danno non patrimoniale nella casella del lucro cessante o di forma contrattuale sottintesa e che potrebbe non aver niente a che vedere con il dichiarato intento risarcitorio.
Sarà quindi il Giudice a dover interpretare il contratto anche dal lato fiscale ricordando che la Sezione Tributaria ha da tempo statuito, al riguardo, che “L'interpretazione del contratto, concretandosi nell'accertamento della volontà dei contraenti, si traduce in un'indagine di fatto affidata al giudice di merito e censurabile, in sede di legittimità, solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà della motivazione, tale da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguìto per giungere alla decisione, o per violazione delle regole ermeneutiche, con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto vagliati dal predetto giudice di merito” Corte di Cassazione, Sez. 5 Sentenza n. 29648 del 14 novembre 2019.
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3) I criteri ermeneutici di interpretazione del contratto. La buona fede.
Come abbiamo già sottolineato, il Codice civile, nel Libro IV, dedica il capo IV alla disciplina giuridica dell'interpretazione del contratto. Il riferimento normativo è dunque agli articoli da 1362 a 1371 c.c.
In questo ambito si è soliti distinguere tra il gruppo di articoli 1362-1365 c.c che si occupano del criteri di interpretazione soggettiva dai successivi articoli 1366-1370 i quali analizzano i criteri di interpretazione oggettiva. I primi vanno ad indagare la reale intenzione dei contraenti, i secondi che si rifanno alla clausola generale di buona fede o ad altri criteri che non si riconducono alla comune volontà delle parti.
Vale sempre il criterio gerarchico per il quale le norme (artt. 1362-1365) che mirano ad accertare e ricostruire la volontà espressa dai contraenti, secondo i canoni ermeneutici dell'autonomia e della totalità (interpretazione soggettiva), hanno la precedenza su quelle (artt. 1367-1371) che mirano a risolvere il problema interpretativo nel quadro delle vedute correnti nell'ambiente sociale in cui il negozio è sorto (interpretazione oggettiva); pertanto, il giudice potrà far ricorso al secondo gruppo di norme solo quando il primo gruppo non sia valso a dare un significato privo di dubbi e ambiguità alla clausola o al contratto.
Tornando all’articolo 1362 c.c, come abbiamo già detto, va affermato il principio per cui nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto. Quindi la volontà dei contraenti non va storicizzata al momento della conclusione del contratto, quanto piuttosto verificata nel comportamento degli stessi e nello svolgimento della condotta medesima.
Va detto però che, secondo la giurisprudenza dominante, l'art. 1362, pur prescrivendo all'interprete di non limitarsi all'analisi del significato letterale delle parole, non relega tale criterio al rango di strumento interpretativo del tutto sussidiario e secondario, ma lo colloca, al contrario, nella posizione di mezzo prioritario e fondamentale per la corretta ricostruzione della comune intenzione dei contraenti. Dunque il giudice, prima di accedere ad altri, diversi parametri di interpretazione, è tenuto a fornire compiuta e articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale, a meno che tale equivocità non risulti, icto oculi, di assoluta e non contestabile evidenza (Cass. 12082/2015; Cass. 21797/2008; Cass. 10218/2008; Cass. 2759/2008 e molte altre). Pare di poter concludere che qualora non vi sia alcuna ragione di divergenza fra lettera e spirito degli accordi un'ulteriore e diversa interpretazione è inammissibile, in quanto condurrebbe il giudice a sostituire la propria soggettiva opinione alla volontà effettiva dei contraenti.
Inoltre ai sensi dell'articolo 1366, il contratto deve essere interpretato secondo buona fede. La clausola generale di buona fede impone alle parti di agire con correttezza e lealtà, preservando il ragionevole affidamento sul significato dell'accordo.
Il problema però, dal lato tributario, è l’eventuale sottostante accordo tra le parti per vestire il contratto in modo da risparmiare imposte. Al riguardo il nuovo articolo 10-bis dello Statuto del Contribuente ci dice che possono essere riqualificate le operazioni che a) siano prive di sostanza economica - ovvero i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali – e b) che tali operazioni facciano conseguire vantaggi fiscali indebiti, intendendo con ciò i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalita' delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario.
Dunque la valutazione del contratto si pone prima sul piano civilistico della sua interpretazione (ovviamente con potenziali effetti fiscali), poi su quello antiabusivo.
Ma se la lettera del contratto “tiene” e se gli effetti dello stesso sono valutabili in concreto, non basta che la costruzione sia foriera di risparmi fiscali per dare all’accordo una diversa lettura. Almeno andando nel solco della interpretazione della Cassazione e delle nuove regole statutarie. Regole nelle quali, ricordiamolo, vale comunque il principio di buona fede che presidia i rapporti tra i contraenti. Stavolta in ottica di rapporti fisco-contribuente.
Inoltre, parlando dell’attuale normativa antiabusiva, va ricordato un passaggio a nostro avviso importante della sentenza n. 158 del 21 luglio 2020 della Corte Costituzionale. Chiamata a decidere sulla portata, di riflesso ai precetti costituzionali, dell’articolo 20 del testo unico di registro, la Consulta ha osservato come la valutazione degli atti in termini di elusione o abuso sia profondamente mutata a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000: come conseguenza, se si accettasse l’idea di una riqualificazione ampia degli atti si consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di «indebiti» vantaggi fiscali e di operazioni «prive di sostanza economica», precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea).
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4) Il caso deciso dalla Sezione Tributaria
Secondo i Giudici di Legittimità la valutazione della natura meramente reintegrativa o di mancata percezione di redditi derivanti da un atto di transazione stipulato dal contribuente al fine della sua soggezione a imposizione fiscale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e, se congruamente motivata, non è sindacabile in Cassazione.
Nel caso specifico la CTR ha peraltro evidenziato che la transazione prevedeva il pagamento di una somma di danaro come ristoro della rinuncia alla titolarità della villa in Cortina e che, pertanto, la stessa doveva essere qualificata come danno emergente (la sentenza in scrutinio parla di "lucro cessante", tuttavia rigetta il motivo proposto dalla parte pubblica, descrivendo adeguatamente la vicenda come "danno emergente", in tal senso dovendosi correggere il testo). Si tratta di motivazione esente da vizi logici e giuridici e conforme all'indirizzo consolidato secondo cui "In tema di imposte sui redditi, in base al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, (nel testo applicabile "ratione temporis"), le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito imponibile nell'ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa (ex plurimis Sez. 5 - , Sentenza n. 10244 del 26/04/2017)" (Cass., V, n. 24055/2015).
Quanto alla reale volontà delle parti, la Corte ricorda come, secondo la giurisprudenza consolidata, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 c.c. e segg..
E' pertanto onere del ricorrente, al fine di far valere la violazione dei richiamati profili, non solo di fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma anche di precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità" (Cfr. Cass. 22.09.2016 n. 18585; cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass., 4 giugno 2010, n. 13587; 31 maggio 2010, n. 13242).
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