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L'ONERE DELLA PROVA NEL REVERSE CHARGE DEI PREZIOSI USATI

L'onere della prova nel reverse charge dei preziosi usati

La prova dell’attività commerciale in caso di illegittima applicazione del Reverse Charge IVA in capo ai commercianti di gioielli usati spetta all'Agenzia

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Pronunce contrastanti tra la CTR campana e la CTR pugliese sull’obbligo di provare l’attività esercitata dal cessionario nell’accertamento IVA.

La prova dell’attività commerciale svolta dal cessionario di gioielli usati in caso di contestazione di illegittima applicazione del Reverse Charge IVA in capo ai commercianti di gioielleria usata, rimane a carico dell’Ufficio accertatore che vuol far valere le proprie pretese in giudizio.

Sulla scorta di quanto sancito dall’art. 2697 del codice civile è l’Agenzia delle Entrate che deve dimostrare l’esistenza dei presupposti che costituiscono il fondamento del recupero della maggior imposta IVA; tanto poiché deve considerarsi ampiamente tramontata la c.d. “presunzione di legittimità dell’atto amministrativo”, che addossava l’onere della prova nel processo tributario “sempre e comunque sul contribuente”.

Con l’emanazione della Risoluzione n. 92/E del 2013, da parte della Direzione Centrale Normativa dell’Agenzia delle Entrate, viene chiarito che il punto focale sulla corretta applicazione dell’inversione contabile IVA nella cessione dei preziosi usati a fusione non è la condizione fisica e/o merceologica dei beni ceduti (rottame o usato) ma l’attività esercitata dal cessionario.

Pertanto, se l’attività del cessionario è esclusivamente quella di fusione e trasformazione degli oggetti ceduti allora il meccanismo del reverse charge IVA è legittimo; mentre, in caso di esercizio, anche contemporaneo, di attività commerciale di gioiellerie da parte del cessionario stesso, l’imposta indiretta deve essere assolta con il Regime del Margine ex art. 36 del D.L. 41/1995.

1) Ecco la recente giurisprudenza sull'onere della prova nel caso di errata applicazione del reverse charge nel commercio dei gioielli usati

A seguito della citata Risoluzione e in pendenza di PVC chiusi a conclusione di verifiche tributarie condotte sulla base anche del piano di controlli c.d. “Gold Scrap”, in cui l’attenzione massima è stata impropriamente posta sullo stato fisico degli oggetti, gli Uffici accertatori dell’Agenzia delle Entrate hanno provveduto ad ampliare le motivazioni degli accertamenti fiscali fondandoli anche sulla contestazione delle attività dei cessionari e producendo a sostegno elementi indiziari di mera congettura senza forza di prova.

In riferimento all’Onere della prova valgono e vengono applicate, anche in ambito tributario, le norme del codice civile che, come regola generale di fondo, subiscono delle eccezioni di fronte a presunzioni legali, ex art. 2728 c.c., o presunzioni semplici assistite da requisiti di precisione, gravità e concordanza, ex art. 2729 c.c., le quali invertono l’onere della prova; inoltre, ancora, in presenza di godimento di agevolazioni fiscali è il contribuente tenuto dimostrare il possesso dei requisiti richiesti.

In occasione proprio di tale tema la Suprema Corte di recente, con Ordinanza n. 14857 del 15 luglio 2015, ha ribadito il concetto affermando che “generalmente l’onere della prova in materia tributaria grava sulla parte che fa valere la pretesa fiscale e, dunque, sull’Ufficio impositore, salvo che la legge non preveda espressamente o implicitamente che debba essere il contribuente a fornire la prova di determinate situazioni a lui favorevoli.

Le prime Commissioni Tributarie Regionali che di recente si sono espresse nel merito della questione sono quelle di Napoli, con la sentenza del 22/09/2015 n. 8370, e Bari, con sentenza dell’11/09/2015 n. 2058.

Da dette sentenze emerge che, mentre, la CTR della Campania accoglie l’appello dell’Agenzia delle Entrate e condanna alle spese il contribuente perché “Ai fini probatori, il contribuente per potere beneficiare delle agevolazioni iva, avrebbe dovuto provare, che gli oggetti acquistati usati siano stati poi successivamente destinati alla rottamazione attraverso processi di fusione.”. Il Collegio regionale della Puglia, con la sentenza 2058/2015, premette che il meccanismo del reverse charge è finalizzato a contrastare il fenomeno della frode fiscale in particolari settori ritenuti ad alto rischio di evasione e, nel merito, appura che la contestazione dell’Ufficio si regge unicamente su una presunzione semplice, sguarnita dei previsti requisiti di gravità, precisione e concordanza, e sancisce che il ragionamento meramente presuntivo dell’organo verbalizzante avrebbe necessariamente imposto una verifica fiscale anche presso le cessionarie fonderie al fine di verificare il concreto utilizzo e destinazione a fusione degli oggetti di gioielleria.

Per difetto di prove da parte dell’Ufficio, quindi, la CTR di Bari – Sez. staccata di Lecce accoglie l’appello della società accertata e, in assenza di prove prodotte dall’organo accertatore, fonda il proprio giudizio sulle risultanze delle fatture, dei certificati camerali e, pur con i noti limiti probatori di cui soffrono, anche sulle dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti legali delle società cessionarie.

A parere degli scriventi, in conclusione, il nodo delle divergenze tra le pronunce delle due diverse Commissioni risiede nel considerare il metodo del Reverse Charge IVA un beneficio/agevolazione oppure metodo di assolvimento dell’imposta. Quindi, la prima considerazione riferita al beneficio fiscale inverte l’onere della prova a carico del contribuente, mentre il riferimento al meccanismo di calcolo dell’imposta indiretta fa ricadere l’obbligo probatorio, per quanto previsto dagli artt. 54, comma 5, del DPR 633/1972, e 2697 del Codice Civile, sull’Ufficio accertatore.

a cura di Nunzio Ragno e Giuseppe Quarticelli

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