Speciale Pubblicato il 29/09/2014

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Mancata emissione del processo verbale di constatazione nelle indagini "a tavolino"

di Paggi Dott.ssa Lia

L'accertamento "a tavolino" e la mancanza di redazione del processo verbale di constatazione (pvc) comporta rilevanti conseguenze per il contribuente, a cui vengono a mancare i 60 giorni per la presentazione di memorie difensive. In questo articolo l'autore fa il punto della giurisprudenza e propone alcune riflessioni sulle conseguenze dell'emissione dell'avviso di accertamento senza il preventivo pvc.



La giurisprudenza di merito e di legittimità si sta sempre più spesso occupando del tema relativo alle indagini cosiddette “a tavolino”. In queste tipologie di accertamento, l’Amministrazione generalmente non provvede a redigere alcun p.v.c. , ma emette direttamente l’avviso di accertamento. Il dibattito giurisprudenziale citato si è quindi andato ad occupare delle sorti da riservare all’avviso di accertamento che venga emesso senza emissione del p.v.c. e, consequenzialmente, senza concedere al contribuente il termine di 60 giorni, di cui all’art. 12, comma 7, L.212/2000, per presentare memorie difensive.

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Il punto sulla giurisprudenza della Corte di Cassazione sull'invalidità dell'avviso di accertamento

E’ risaputo, infatti, che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute con la Sentenza n. 18184/2013 sancendo l’invalidità dell’avviso di accertamento emesso prima dei 60 giorni dalla notifica del p.v.c. : “l'inosservanza del termine dilatorio prescritto dal comma 7 dell'art. 12, in assenza di qualificate ragioni di urgenza, non può che determinare l'invalidità dell'avviso di accertamento emanato prematuramente, quale effetto del vizio del relativo procedimento, costituito dal non aver messo a disposizione del contribuente l'intero lasso di tempo previsto dalla legge per garantirgli la facoltà di partecipare al procedimento stesso, esprimendo le proprie osservazioni (che l'Ufficio è tenuto a valutare, come la norma prescrive), cioè di attivare, e coltivare, il contraddittorio procedimentale”.
Ebbene, quale deve essere la sorte dell’accertamento nel caso in cui il p.v.c. non fosse proprio neanche stato emesso?
La soluzione che la giurisprudenza di merito e di legittimità danno al caso in oggetto non è univoca.

Spunti di riflessione e tesi difensive nel caso di mancata emissione del processo verbale di constatazione

Esaminiamo nel dettaglio alcune casistiche di interesse per trarne spunti riflessivi utili anche ai fini difensivi.
Primariamente non pare esservi alcun dubbio sul fatto che, ove il controllo subito dal contribuente sia di tipo “sostanziale” con accesso presso i locali destinati all’esercizio dell’attività o professione, l’emissione del pv.c. sia assolutamente necessaria (art.12 comma 4 L.212/2000, art.52 co.6 d.p.r. 633/72, art. 33, co.1. d.p.r 600/73) e pertanto una mancanza in questo senso rappresenterebbe un tentativo di “aggirare” la norma di cui all’art. 12 comma 7, L.212/2000.
In questo senso si esprime in maniera ormai del tutto maggioritaria la Suprema Corte (ex multis : Cass. 2593/2014 e Cass. 20770/2013).
n altre parole, ogni qual volta l’Amministrazione si sia recata presso il contribuente (sia per una verifica sul posto che anche solo per prelevare documenti) opera senza dubbio la previsione relativa alla necessità dell’emissione del p.v.c. e pertanto del rispetto dei 60 giorni per emettere l’avviso di accertamento (Cass. 13588 del 13/06/2014).

Il caso delle indagini cosiddette "a tavolino"

La questione si fa più complicata per le indagini cosiddette “a tavolino”.
A parere di chi scrive, a questo punto occorrerebbe fare un’ulteriore suddivisione in due sotto casi: indagini “a tavolino” che presuppongono un contraddittorio preventivo obbligatorio ex lege (ad. esempio gli studi di settore ed il redditometro) ed indagini “a tavolino” che non presuppongono alcun contradditorio obbligatorio ex lege (indagini finanziarie, accertamenti effettuati con documentazione reperita direttamente dall’Ufficio consultando l’anagrafe tributaria o con documentazione fornita dal contribuente).
Secondo la Cass. n. 13588 del 13 giugno 2014, la suddivisione prospettata non avrebbe luogo di esistere in quanto l’unico elemento discriminante sarebbe il “luogo” della verifica: se presso il contribuente, si applica l’art. 12 co. 7 L.212/2000 ; senza accesso, viceversa, non sarebbe necessaria l’emissione del p.v.c. e di conseguenza il rispetto del termine dei 60 giorni.
Questa pronuncia tuttavia pare aggiungere un tassello in più rispetto al precedente di soli due mesi prima (Cass. 7960 del 4/4/2014) che, al contrario, aveva valorizzato il fatto che il controllo “a tavolino” avesse comportato la necessarietà o meno ex lege del contraddittorio preventivo.
Si trattava, infatti , di un accertamento da Studi di settore e la Suprema Corte così si era espressa : “la fattispecie in esame si colloca, invece, nell'ambito della procedura di accertamento c.d. standardizzato (mediante, in particolare, l'applicazione degli studi di settore), la quale prevede la fase - necessaria a pena di nullità dell'accertamento: Cass., sez. un., n. 26635 del 2009 - del contraddittorio procedimentale, alla quale il contribuente deve obbligatoriamente essere invitato a partecipare e della quale l'Ufficio deve dar conto - salvo che il contribuente non abbia aderito all'invito - nella motivazione dell'atto impositivo.
Ne deriva che il caso di specie è già disciplinato (anche a seguito della citata pronuncia delle sezioni unite del 2009) in modo tale da garantire pienamente la partecipazione e l'interlocuzione del contribuente nella fase anteriore all'emissione dell'accertamento”.
Non a caso anche la citata Sentenza dello scorso giugno (n. 13588) aveva ad oggetto un accertamento standardizzato da redditometro e quindi con contraddittorio preventivo obbligatorio.
Si ritiene che una distinzione in questo senso sia assolutamente necessaria, infatti, ove l’accertamento “a tavolino” sia stato preceduto dal contraddittorio obbligatorio, l’Ufficio dovrà motivare nel corpo dell’ eventuale avviso di accertamento le ragioni per le quali ha inteso disattendere le difese del contribuente spese in fase amministrativa.
Aderendo alla tesi opposta si ritiene che i pregiudizi che ne deriverebbero al contribuente siano molteplici. Si pensi al caso emblematico delle indagini finanziarie, ove l’Amministrazione semplicemente riporti nell’avviso di accertamento tutti i dati ottenuti dalle banche senza chiedere preventivamente alcunché (magari perché l’annualità è in scadenza!) al contribuente. Non si tratta di un caso di scuola, ma talvolta, purtroppo ed a dispetto dei principi costituzionali di collaborazione e buon andamento nei rapporti tra Amministrazione e contribuente, accade nella pratica.
Ebbene ecco che il contribuente si ritroverebbe con un avviso di accertamento, ossia un atto immediatamente esecutivo ed in grado di incidere sulla propria sfera patrimoniale, di fronte al quale egli: ha perso la possibilità di definizione del p.v.c. (con sanzioni ridotte ad un sesto del minimo edittale che può non coincidere con l’irrogato) di cui all’art. 5-bis del D.Lgs 218/97 ; se ricorre dovrà pagare 1/3 degli importi accertati che magari sono totalmente giustificati (e questo potrebbe voler dire strozzo finanziario definitivo, oltretutto in tempi di crisi come questi) ; ha dovuto pagare un difensore che lo assista come minimo nel procedimento di accertamento con adesione. Si confida pertanto fortemente che la Suprema Corte avvalli sempre di più l’orientamento garantista il cui solco è stato tracciato dalla Stessa con la pronuncia n. 7960/2014 citata.


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