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SUCCESSIONE DEL SOCIO NEI DEBITI SANZIONATORI: PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE

Successione del socio nei debiti sanzionatori: pronuncia della Cassazione

Estinzione della società e sanzioni tributarie: la controversa successione del socio nei debiti sanzionatori

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Con l'Ordinanza n. 23341 del 29 agosto 2024, la Corte di Cassazione, sezione tributaria, ha stabilito che i soci di una società di capitali estinta, a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, sono tenuti a rispondere anche delle sanzioni tributarie irrogate alla società, seppur nei limiti di quanto da essi riscosso in base al bilancio finale di liquidazione

La pronuncia qualifica la vicenda come un "fenomeno successorio sui generis", escludendo l'applicazione analogica del principio di intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi, positivizzato dall’art. 8 del D.Lgs. n. 472 del 1997.

Il presente contributo analizza criticamente tale decisione, evidenziandone le tensioni con i principi cardine del diritto sanzionatorio tributario, in particolare il carattere personale della responsabilità e la lettera della normativa di riferimento, e ponendola in contrasto con orientamenti giurisprudenziali che propendono per una netta separazione tra l'obbligazione tributaria della società e la responsabilità, di natura civilistica, del socio.

1) Il caso

La vicenda processuale trae origine da un avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione, ai fini IRES, IVA e IRAP, maggiori ricavi nei confronti di una società a responsabilità limitata. 

Successivamente all'emissione dell'atto, la società veniva posta in liquidazione e cancellata dal registro delle imprese. 

L'Amministrazione finanziaria notificava quindi gli avvisi di accertamento ai soci, i quali proponevano ricorso.

 L'allora Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso dei contribuenti.

In sede di appello, la decisione di primo grado veniva parzialmente riformata. 

In particolare, i giudici del gravame ritenevano nullo l'avviso notificato al liquidatore della società, in quanto quest'ultima era già estinta, ma validi quelli notificati ai soci.

Tuttavia, la CTR annullava le sanzioni irrogate, ritenendo che in capo ai soci difettasse l'elemento soggettivo della colpevolezza e che la loro applicazione violasse l'art. 7 del D.L. n. 269/2003, il quale pone le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale esclusivamente a carico della persona giuridica.

L'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione avverso tale ultima pronuncia, contestando la violazione dell'art. 2495 c.c. e delle norme in materia di sanzioni tributarie, sostenendo che i soci, quali successori della società estinta, dovessero rispondere anche delle sanzioni nei limiti di quanto percepito in sede di liquidazione.

2) La decisione della Corte

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza in commento, ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, cassando con rinvio la sentenza impugnata. 

Il ragionamento della Corte si articola attorno alla qualificazione della cancellazione della società dal registro delle imprese come un "fenomeno successorio sui generis".

Richiamando l'insegnamento delle Sezioni Unite (sent. n. 6070/2013), la Corte afferma che l'estinzione della società non comporta l'estinzione dei suoi debiti, i quali si trasferiscono ai soci. 

Questo trasferimento, tuttavia, non è assimilabile alla successione mortis causa. 

Proprio tale distinzione, secondo i giudici di legittimità, impedisce l'applicazione analogica dell'art. 8 del D.Lgs. n. 472/1997, che sancisce l'intrasmissibilità dell'obbligazione sanzionatoria agli eredi. 

La Corte sottolinea che la successione del socio nel debito sociale è un fenomeno con caratteristiche proprie, non sovrapponibile a quello ereditario, e pertanto la norma sull'intrasmissibilità non può essere estesa oltre il suo perimetro letterale.

La Corte affronta poi la questione relativa all'art. 7 del D.L. n. 269/2003, che stabilisce come le sanzioni siano "esclusivamente a carico della persona giuridica". 

Secondo l'ordinanza, la ratio di tale norma è quella di scindere la posizione dell'autore materiale della violazione da quella del soggetto che ne trae vantaggio (la società), concentrando su quest'ultima l'onere sanzionatorio.

Tuttavia, questa regola non sarebbe incompatibile con la responsabilità successoria del socio. Anzi, secondo la Corte, negare la trasmissibilità della sanzione al socio (nei limiti dell'attivo liquidato) vanificherebbe la ratio stessa dell'art. 7. 

Se la sanzione si estinguesse con la società, il vantaggio economico derivante dalla violazione tributaria rimarrebbe consolidato nel patrimonio dei soci che hanno beneficiato della distribuzione dell'attivo, frustrando così l'obiettivo di colpire il soggetto che si è concretamente avvantaggiato dell'illecito.

Infine, la Corte chiarisce che l'elemento soggettivo (la colpevolezza) del socio è irrilevante, poiché la sua responsabilità non deriva da una sua condotta, ma dal meccanismo successorio descritto.

Viene quindi enunciato il seguente principio di diritto: «L’estinzione della società di capitali conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese integra un fenomeno successorio connotato da caratteristiche sui generis, connesse al regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali nelle differenti tipologie di società (Cass., Sez. U, 12/03/2013, n. 6070), con la conseguenza che i soci sono chiamati a rispondere anche per il pagamento della sanzioni tributarie nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione, venendo, altrimenti, vanificata la ratio sottesa all’art. 7 d.l. 30/09/2003, n. 769, convertito con modificazioni dalla legge 24/11/2003, n. 326, funzionale a evitare che gli effetti della sanzione ricadano su un soggetto diverso da quello che si avvantaggia, in concreto, della violazione della norma tributaria». 

3) Il commento

La decisione della Suprema Corte, pur apprezzabile nel suo sforzo di fornire una soluzione sistematica a una questione complessa, suscita notevoli perplessità e si pone in potenziale attrito con principi consolidati del diritto sanzionatorio tributario.

Il fulcro della critica risiede nella qualificazione della vicenda come "fenomeno successorio sui generis". 

Tale etichetta, sebbene mutuata da un'autorevole pronuncia delle Sezioni Unite, viene qui utilizzata come un passe-partout per aggirare il principio cardine della personalità della sanzione, codificato nell'art. 8 del D.Lgs. n. 472/1997. 

La distinzione tra successione societaria e successione mortis causa appare eccessivamente formalistica e finalizzata a giustificare un esito predeterminato: la sopravvivenza del credito sanzionatorio dello Stato. 

Il principio di personalità della sanzione, tuttavia, non è un mero orpello, ma rappresenta un pilastro di civiltà giuridica che postula la necessaria correlazione tra la sanzione e il soggetto cui è ascrivibile la condotta (o, nel caso di enti, il soggetto-ente stesso). 

Se tale soggetto si estingue, la logica del sistema sanzionatorio imporrebbe l'estinzione anche della sanzione, esattamente come accade per la persona fisica.

Ancora più problematica appare l'interpretazione dell'art. 7 del D.L. n. 269/2003. 

La norma afferma in modo inequivocabile che le sanzioni sono "esclusivamente" a carico della persona giuridica. 

L'avverbio "esclusivamente" non lascia spazio a interpretazioni estensive. 

La sua introduzione mirava a creare una barriera invalicabile tra il patrimonio dell'ente e quello dei suoi soci o amministratori per quanto attiene alle sanzioni tributarie, superando il precedente e controverso regime di solidarietà. 

L'argomentazione della Corte, secondo cui la propria soluzione preserverebbe la ratio della norma, appare un paradosso. 

La Corte, infatti, opera un'interpretazione teleologica che, di fatto, contraddice il dato letterale per perseguire un fine equitativo (evitare che i soci si avvantaggino dell'illecito). 

Sebbene comprensibile, tale operazione ermeneutica rischia di sconfinare in un'attività creatrice di diritto, sostituendosi al legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco, specie se si considera che, alla luce del comma 1 dell'art. 12 delle "Preleggi"  la giurisprudenza di legittimità in più occasioni ha rilevato che il criterio esegetico prevalente nell'interpretazione di una norma è quello "letterale", che l'interprete non può oltrepassare se la combinazione del significato proprio delle parole ivi utilizzate è idonea, come accade nel caso dell'art. 7 in questione, a rappresentarne in modo chiaro il contenuto precettivo. 

Nello specifico, si è affermato che «nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o di una norma secondaria sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro e univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore» (enfasi aggiunta – cfr., ex plurimis: Corte di Cassazione, sez. lav., ordinanza 29.3.2023, n. 8898; Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 25.7.2022, n. 23051; Corte di Cassazione, sez. trib., ordinanze 19.5.2022, nn. 16229 e 16195; Corte di Cassazione, sez. I civile, ordinanza 23.3.2022, n. 9382; Corte di Cassazione, sez. lav., sentenza 3.11.2021, n. 31470; Corte di Cassazione, sez. lav., sentenza 12.10.2021, n. 27784; Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenze 4.2.2020, nn. 2505 e 2504).

In passato, la giurisprudenza, anche di legittimità, ha affermato che la responsabilità dei soci per i debiti tributari della società estinta, prevista dall'art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, ha natura civilistica e non tributaria, configurandosi come un'obbligazione propria ex lege e non come una successione o coobbligazione nel debito tributario (Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 14.1.2022, n. 986). 

Secondo tale impostazione, una volta estinta la società, il processo tributario non potrebbe proseguire nei confronti dei soci per le sanzioni, proprio perché la legge non prevede un subentro automatico nel rapporto sanzionatorio

La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 23341/2024 (meramente ribadita nella successive ordinanze 22.3.2025, n. 7643, 27.4.2025, n. 1104 e ordinanze 18.7.2025, n. 20024), pur garantendo una maggiore tutela all'erario, sacrifica la certezza del diritto e la coerenza dogmatica del sistema sanzionatorio e si pone in contrasto con la soluzione interpretativa adottata sulla medesima questione giuridica in altre precedenti pronunce: sentenza 7.4.2017, n. 9094; sentenza 19.4.2018, n. 9672; ordinanza 14.12.2020, n. 28401; ordinanza 20.10.2021, n. 29112; ordinanza 13.10.2022, n. 30011; ordinanza 27.11.2022, n. 34273; ordinanza 14.7.2023, n. 20341; ordinanza 9.8.2023, n. 24316; sentenza 5.4.2024, n. 9170. 

Non solo, il revirement realizzato dall’ordinanza in commento della Corte di Cassazione introduce una forma di "ultrattività" della sanzione che non trova un solido fondamento normativo, basandosi su un'architettura concettuale (la successione sui generis) che appare costruita ad hoc per superare ostacoli normativi altrimenti insormontabili. 

A parte l'opportunità che della questione giuridica vengano investite le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, è evidente anche la necessità di un intervento chiarificatore da parte del legislatore per dirimere in modo definitivo il conflitto tra le norme civilistiche sulla responsabilità dei soci e i principi fondamentali del diritto tributario sanzionatorio.

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