Negli ultimi anni, il legislatore ha più volte cercato di incentivare il rientro in Italia di lavoratori altamente qualificati attraverso misure fiscali di favore.
Con l’articolo 5 del Decreto Legislativo 209 del 2023, entrato in vigore il 1° gennaio 2024, è stato introdotto un nuovo regime agevolativo per i cosiddetti “impatriati”, applicabile ai soggetti che trasferiscono la residenza fiscale in Italia a partire da tale data, in sostituzione del previgente regime disciplinato dall’articolo 16 del D.Lgs. 147/2015.
Il nuovo impianto normativo si presenta più rigoroso: non si tratta solo di agevolare chi decide di tornare, ma di selezionare soggetti che abbiano effettivamente svolto un percorso lavorativo qualificato all’estero, con un reale distacco dal sistema economico italiano.
La ratio sottesa è chiara: attrarre capitale umano ad alta qualificazione e incentivare il rientro dei “cervelli”, evitando che il beneficio sia ottenuto da chi, in realtà, non ha mai interrotto concretamente i legami lavorativi con il nostro Paese.
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1) Regime impatriati: qual è il vantaggio fiscale previsto?
Il beneficio consiste nella parziale esclusione dal reddito imponibile dei redditi di lavoro dipendente, autonomo e assimilato prodotti in Italia. In linea generale, il 50% di tali redditi non concorre alla formazione del reddito complessivo.
La percentuale di esclusione è ridotta al 40% se il contribuente ha figli minori a carico.
L’agevolazione si applica per un massimo di cinque periodi d’imposta, su un ammontare massimo di reddito agevolabile pari a 600.000 euro annui.
Per accedere al regime agevolativo, il lavoratore deve soddisfare congiuntamente i seguenti requisiti:
- aver trasferito la residenza fiscale in Italia, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del TUIR, a decorrere dal 2024;
- impegnarsi a mantenerla per almeno quattro periodi d’imposta consecutivi;
- svolgere la propria attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano;
- non essere stato fiscalmente residente in Italia nei tre, sei o sette periodi d’imposta precedenti il trasferimento, a seconda della pregressa relazione lavorativa con il datore italiano o con soggetti del medesimo gruppo;
- possedere una qualifica di elevata specializzazione o qualificazione, come definita dal D.Lgs. 108/2012 o dal D.Lgs. 206/2007.
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2) Regime impatriati: il requisito della non residenza fiscale: la vera chiave di accesso
Il nuovo regime prevede tre soglie temporali differenti in relazione al periodo minimo di non residenza fiscale in Italia che il contribuente deve dimostrare.
La soglia base è pari a tre periodi d’imposta. Essa si applica quando il contribuente non ha mai lavorato per soggetti italiani o per soggetti a essi collegati (ossia appartenenti allo stesso gruppo societario) e rientra per iniziare un rapporto ex novo in Italia.
Tuttavia, in presenza di un collegamento societario tra il datore estero e quello italiano – inteso ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1) del Codice civile – la normativa prevede un’estensione del periodo minimo di non residenza:
- a sei periodi d’imposta, se il lavoratore, prima del trasferimento all’estero, non era stato impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto (o di altro appartenente al gruppo);
- a sette periodi d’imposta, se invece, prima del trasferimento all’estero, aveva già svolto attività lavorativa in Italia in favore dello stesso soggetto o di altro appartenente al medesimo gruppo.
Ai fini dell’applicazione del regime agevolato, il concetto di “gruppo” è definito dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 209/2023, che richiama l’articolo 2359, comma 1, n. 1) del Codice civile.
Si considerano appartenenti al medesimo gruppo i soggetti tra i quali sussista un rapporto di controllo diretto o indiretto, oppure che siano sottoposti a un comune controllo da parte di un altro soggetto.
Di conseguenza, è necessario accertare l’esistenza di un effettivo legame societario, valutato non solo sul piano formale ma anche sostanziale, alla luce degli assetti di controllo concretamente esistenti.
3) Regime impatriati: l’interpretazione dell’espressione “prima del trasferimento”
Un tema particolarmente rilevante riguarda il momento temporale da prendere in considerazione per valutare i rapporti intercorsi con i soggetti esteri o con i datori italiani.
Le risposte a interpello n. 41/2025 e n. 142/2025 hanno chiarito che l’espressione “prima del trasferimento”, utilizzata dall’art. 5, comma 2 del D.Lgs. 209/2023, non deve essere intesa in senso restrittivo come riferita esclusivamente all’anno solare anteriore al rientro, ma deve essere letta in chiave estensiva, includendo anche il periodo compreso tra l’inizio dell’anno del rientro e la data effettiva di trasferimento della residenza fiscale in Italia.
In tale arco temporale è necessario verificare se il contribuente abbia svolto attività lavorativa — anche in forma autonoma — in favore di un soggetto estero che, direttamente o indirettamente, appartenga al medesimo gruppo del datore italiano presso cui il soggetto intende lavorare dopo il rientro. In tal caso, troverà applicazione il periodo di non residenza rafforzato, pari a sei o sette anni, a seconda dei rapporti pregressi in Italia con lo stesso gruppo.
4) Regime impatriati: la sospensione del rapporto di lavoro non ostacola l’accesso
Un ulteriore tema di interesse pratico affrontato dalla prassi è quello della sospensione del rapporto di lavoro. È frequente, infatti, che un lavoratore distaccato all’estero mantenga formalmente un contratto con il datore italiano, magari sospeso per tutta la durata dell’esperienza all’estero.
Con la risposta a interpello n. 142/2025, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che la mera esistenza di un rapporto di lavoro giuridicamente sospeso con il datore italiano presso cui il contribuente rientra non incide sul computo del periodo minimo di non residenza richiesto per accedere al regime impatriati, qualora non sussista un’effettiva operatività del rapporto né siano presenti legami societari rilevanti con il soggetto estero presso cui viene prestata l’attività nell’anno (o periodo) anteriore al rientro.
In altri termini, l’assenza di retribuzioni, obblighi previdenziali e prestazioni effettive, unitamente alla mancanza di un rapporto di gruppo tra i due soggetti, impedisce di configurare una continuità lavorativa ostativa, mantenendo applicabile la soglia ordinaria di tre anni di non residenza.
Anche l’attività autonoma può incidere sulla continuità
La risposta a interpello n. 53/2025 ha chiarito che, ai fini della verifica del requisito di non residenza previsto per l’accesso al nuovo regime degli impatriati, assume rilievo la continuità sostanziale dell’attività svolta, indipendentemente dalla natura formale del rapporto giuridico (dipendente, autonomo o professionale).
In particolare, qualora un contribuente, cessato un rapporto di lavoro subordinato con un soggetto estero, prosegua nel periodo precedente al rientro in Italia con attività autonoma per lo stesso soggetto – o per un altro appartenente al medesimo gruppo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c. – il periodo minimo di non residenza richiesto si estende a sei o sette anni.
La durata dipenderà dall’eventuale pregresso impiego in Italia presso lo stesso soggetto (o gruppo), conformemente ai criteri individuati dall’art. 5 del D.Lgs. 209/2023.
5) Regime impatriati: il (limitato) ruolo delle convenzioni internazionali
Resta, infine, il tema della rilevanza delle convenzioni contro le doppie imposizioni nella determinazione della residenza fiscale nei periodi antecedenti il rientro.
L’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 209/2023 consente, per i soli periodi d’imposta fino al 2023, che i cittadini italiani non iscritti all’AIRE possano dimostrare la propria residenza fiscale all’estero secondo i criteri convenzionali previsti dalle convenzioni contro le doppie imposizioni, mediante l’applicazione delle cosiddette tie-breaker rules.
Tuttavia, per i periodi successivi al 2023, tale possibilità non è più prevista. In assenza di un intervento normativo integrativo, la residenza fiscale è determinata esclusivamente secondo i criteri interni di cui all’art. 2, comma 2, del TUIR.
Ne deriva che, anche in presenza di una doppia residenza convenzionale risolta a favore dello Stato estero, il contribuente potrebbe essere considerato fiscalmente residente in Italia, con conseguente inapplicabilità del regime agevolato.
In conclusione, il nuovo regime degli impatriati, pur continuando a offrire un incentivo fiscale significativo, si caratterizza per una struttura normativa decisamente più selettiva rispetto alla disciplina previgente di cui all’art. 16 del D.Lgs. 147/2015.
In tale contesto, il ruolo del professionista risulta centrale nella valutazione preventiva della posizione del contribuente, nella verifica documentale dei requisiti e, ove opportuno, nella predisposizione di istanze di interpello volte a consolidare la posizione ai fini dell’accesso al beneficio.
È in particolare necessario accertare con rigore:
- la residenza fiscale pregressa nei periodi anteriori al rientro;
- i rapporti di lavoro intercorsi con soggetti esteri e nazionali;
- l’eventuale esistenza di legami societari rilevanti ai sensi dell’art. 2359 c.c.;
- la natura sostanziale (e non meramente formale) delle relazioni contrattuali intrattenute;
- l’effettiva sussistenza dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione previsti dal D.Lgs. 108/2012 o dal D.Lgs. 206/2007.
La distinzione tra accesso legittimo al regime e inammissibilità del beneficio può dipendere da aspetti tecnici che emergono solo attraverso una lettura sistematica e sostanzialistica della norma.
In tale prospettiva, l’approccio del professionista deve essere prudente, metodico e orientato alla piena tracciabilità e sostenibilità della posizione del contribuente, anche in un’ottica di tutela ex post.