La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 4 settembre 2025 (causa C-203/24), è tornata a pronunciarsi sulla complessa questione della legislazione previdenziale applicabile ai lavoratori che operano in più Stati membri.
Il caso riguardava un lavoratore residente nei Paesi Bassi, impiegato su una nave che navigava tra diversi Paesi europei, con un’attività inferiore al 25% nel proprio Stato di residenza.
L’ente previdenziale olandese aveva ritenuto applicabile la legislazione nazionale, considerando non solo il tempo di lavoro svolto nei Paesi Bassi, ma anche elementi collaterali come la residenza del lavoratore e la registrazione della nave.
La controversia è arrivata sino alla Corte suprema dei Paesi Bassi, che ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire la nozione di “parte sostanziale dell’attività” ai fini della determinazione della normativa di sicurezza sociale.
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1) Regolamento e UE e decisione della Corte
La disciplina di riferimento è data dal Regolamento (CE) n. 883/2004, che coordina i sistemi nazionali di sicurezza sociale nell’Unione, e dal Regolamento (CE) n. 987/2009, che ne specifica le modalità applicative. In particolare, l’articolo 13 del primo stabilisce che, se un lavoratore svolge un’attività in più Stati membri, è soggetto alla legislazione dello Stato di residenza solo qualora vi eserciti una “parte sostanziale” della sua attività.
L’articolo 14 del regolamento applicativo precisa che tale valutazione deve basarsi sui criteri dell’orario di lavoro e/o della retribuzione, individuando nella soglia del 25% il limite quantitativo minimo.
La Corte ha confermato che tale percentuale rappresenta un requisito vincolante: se il lavoratore non raggiunge almeno il 25% della propria attività nello Stato di residenza, non si può considerare applicabile la legislazione di quel Paese. È stato chiarito che altri elementi, come la residenza anagrafica, il luogo di registrazione della nave o la sede legale del datore di lavoro, non possono supplire al mancato raggiungimento della soglia. Inoltre, la valutazione deve proiettarsi sui dodici mesi successivi, secondo quanto previsto dall’articolo 14, paragrafo 10, del regolamento n. 987/2009.
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2) Lavoro transfrontaliero con il 25% norme del paese di residenza
La decisione ha conseguenze rilevanti anche per l’Italia, in quanto gli enti previdenziali nazionali (INPS e INAIL) sono spesso coinvolti nella gestione di casi transfrontalieri, specialmente nei settori della logistica, dei trasporti e della navigazione. La sentenza rafforza l'obbligo di una verifica oggettiva basata su dati misurabili — ore lavorate e retribuzione percepita — senza possibilità di ampliare l’analisi a criteri discrezionali.
Per i datori di lavoro e i consulenti italiani ciò significa che, qualora un dipendente operi in più Stati, sarà determinante monitorare la quota effettiva di attività svolta in Italia.
L’obbligo di rispettare la soglia del 25% consente di prevenire conflitti di legislazione e garantisce l’applicazione uniforme delle norme europee. Ne deriva un indirizzo chiaro per i casi futuri: i lavoratori che non raggiungono il livello minimo nello Stato di residenza saranno assoggettati alla legislazione del Paese in cui ha sede il datore di lavoro. Per l’Italia, questo orientamento potrà tradursi in una riduzione dei margini di incertezza interpretativa e in una gestione più lineare delle certificazioni A1, con effetti concreti sulla contribuzione previdenziale e sull’assicurazione sociale.
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