La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 20040 del 18 luglio 2025 (udienza del 20 maggio), si è espressa su un caso riguardante un ente pubblico territoriale e alcuni suoi dipendenti, relativamente alla revoca dei buoni pasto sostitutivi del servizio mensa.
Un Consorzio Comunale aveva infatti interrotto l’erogazione dei buoni a partire da giugno 2015, dopo averli regolarmente distribuiti per anni, in applicazione del CCNL ARAN 14 settembre 2000 per il comparto enti locali (artt. 45 e 46).
La Corte d’Appello di Palermo aveva accolto la domanda dei lavoratori, condannando l’ente al risarcimento del danno commisurato al valore dei buoni pasto non erogati.
La Cassazione ha ora confermato questa pronuncia, rigettando il ricorso presentato dal datore di lavoro pubblico.
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1) L’obbligo di correttezza e buona fede nella gestione del rapporto
Il cuore della decisione riguarda il principio secondo cui, pur essendo la concessione dei buoni pasto una facoltà dell’amministrazione pubblica e non un obbligo, una volta attivato e consolidato il beneficio, questo entra a far parte del patrimonio del lavoratore. Di conseguenza, la sua soppressione non può avvenire in modo arbitrario o unilaterale.
La Corte ha richiamato l’obbligo generale del datore pubblico di agire nel rispetto dei canoni di correttezza e buona fede contrattuale, come previsto dagli articoli 1175 e 1375 del Codice Civile. Tali obblighi si innestano nella disciplina del pubblico impiego contrattualizzato, e trovano fondamento nell’art. 97 della Costituzione, che impone imparzialità e trasparenza nella gestione amministrativa, e nell’art. 2 del D.Lgs. n. 165/2001, che esige che i rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni siano improntati a efficacia, efficienza e trasparenza.
Nel caso specifico, il Libero Consorzio si era limitato a diramare una nota interna ai dirigenti per comunicare la sospensione del beneficio, senza fornire motivazioni puntuali né avviare un confronto con le organizzazioni sindacali, come invece richiesto. Tale mancanza ha giustificato il riconoscimento di un danno, anche in assenza del carattere retributivo del buono pasto.
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2) Risarcimento legittimo: non è monetizzazione del buono pasto
Nel ricorso, il datore di lavoro aveva sostenuto che la natura assistenziale e non retributiva dei buoni pasto impedisse ogni pretesa risarcitoria, anche sulla base del divieto di monetizzazione previsto dalla normativa e dalla giurisprudenza.
La Corte di Cassazione però ha chiarito che questo divieto non può essere invocato per sottrarsi alla responsabilità civile derivante da un comportamento scorretto.
Infatti, il risarcimento riconosciuto non rappresenta la sostituzione in denaro del beneficio assistenziale, ma piuttosto la compensazione per la lesione dell’affidamento legittimo del lavoratore su questa entrata e per il mancato rispetto delle regole di correttezza nell’esecuzione del contratto.
Il valore del buono pasto è stato dunque usato come parametro per quantificare il danno e non come pagamento sostitutivo.
La Corte ha infine ribadito che non è sufficiente, per escludere la responsabilità, invocare documenti o verbali di contrattazione integrativa prodotti solo in Cassazione.
Il giudizio di legittimità, infatti, non ammette l’ingresso di nuove prove di merito, salvo casi tassativi.
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