Con l’ordinanza n. 13691 del 22 maggio 2025, la Corte di Cassazione – sezione lavoro – è intervenuta su un tema molto discusso nel rapporto di lavoro la possibilità di ricevere un’indennità per le ferie non godute al momento della cessazione del contratto. Al centro della vicenda, il caso di una dirigente di ANAS Spa licenziata mentre si trovava in stato di detenzione e impossibilitata quindi a fruire del proprio residuo ferie.
La Corte ha affrontato un nodo giuridico complesso: il divieto di monetizzazione delle ferie non fruite, previsto per il pubblico impiego dall’art. 5, comma 8, del D.L. n. 95/2012, può essere applicato anche quando il lavoratore non ha avuto la possibilità concreta di utilizzare quei giorni?
E chi deve dimostrare se le ferie potevano o meno essere fruite: il lavoratore o il datore di lavoro?
Con questa decisione, la Suprema Corte fornisce un’importante precisazione sui limiti e le eccezioni a tale divieto, ribadendo la centralità del diritto alle ferie come diritto fondamentale e irrinunciabile del lavoratore, anche nel caso di figure dirigenziali.
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1) Il caso oggetto della controversia
La vicenda trae origine dal ricorso di una dirigente nei confronti della società ANAS Spa, per ottenere il pagamento delle ferie non godute negli anni 2014 e 2015.
La lavoratrice era stata licenziata nel novembre 2015, mentre si trovava in stato di detenzione cautelare.
Sia in primo grado che in appello, i giudici avevano rigettato la domanda di indennizzo per ferie non fruite, ritenendo che, in virtù del suo ruolo dirigenziale apicale, la lavoratrice avrebbe potuto autonomamente pianificare e godere delle ferie.
Inoltre, si è ritenuto applicabile il divieto generale di monetizzazione delle ferie anche in caso di interruzione del rapporto, previsto per il pubblico impiego.(v. all'ultimo paragrafo il confronto con i settore privato)
La Corte d’Appello di Roma, richiamando l’art. 5, comma 8, del D.L. 95/2012 (convertito nella legge n. 135/2012), aveva ritenuto legittima la mancata corresponsione dell’indennità sostitutiva, in quanto la cessazione del rapporto di lavoro – anche per licenziamento – non fa eccezione al divieto di monetizzazione, salvo casi particolari come la malattia.
La dirigente ha quindi proposto ricorso per cassazione, sollevando la questione del corretto riparto dell’onere della prova e della compatibilità dell’interpretazione restrittiva con i principi costituzionali ed europei.
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2) Il principio di diritto affermato dalla Cassazione
Con l’ordinanza n. 13691 del 2025, la Corte di Cassazione ha accolto in parte il ricorso della dirigente, sottolineando un cambio di prospettiva rispetto alla giurisprudenza precedente. In particolare, ha affermato il principio secondo cui le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale, non solo del lavoratore subordinato in generale, ma anche del dirigente.
Come noto il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è strettamente connesso alla tutela della salute e al recupero delle energie psicofisiche. Di conseguenza, l’onere della prova non può gravare sul lavoratore, ma deve essere sostenuto dal datore di lavoro, il quale è tenuto a dimostrare di aver messo il dipendente effettivamente in condizione di godere delle ferie. Questo include anche l’obbligo di informarlo, in maniera adeguata e tempestiva, che le ferie non fruite sarebbero andate perse.
La Cassazione ha quindi stabilito che la perdita del diritto alle ferie e alla relativa indennità può verificarsi solo se il datore di lavoro prova di aver invitato formalmente il lavoratore a fruirne, avvisandolo delle conseguenze della mancata fruizione. Tale orientamento è conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), secondo cui l’indennità per ferie non godute può essere negata solo in presenza di una colpevole inerzia da parte del lavoratore, adeguatamente informato e posto nelle condizioni di esercitare il proprio diritto.
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3) Implicazioni normative dopo la sentenza della Consulta
La Corte ha fondato il proprio ragionamento sull’art. 5, comma 8, del D.L. n. 95/2012, che prevede il divieto di monetizzazione delle ferie per i dipendenti pubblici, compresi i dirigenti, anche in caso di cessazione del rapporto per dimissioni, risoluzione o pensionamento.
Tuttavia, la norma è stata reinterpretata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 95/2016 e della normativa comunitaria, in particolare l’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, che impone di garantire il diritto alle ferie effettive e, in mancanza, all’equivalente economico.
Pertanto, secondo la Cassazione, la disposizione normativa interna non può essere applicata in modo assoluto e automatico, ma va integrata con i principi superiori, secondo cui il lavoratore non può perdere le ferie non godute se la mancata fruizione è dipesa da cause indipendenti dalla sua volontà, come una detenzione, una malattia o un licenziamento immediato.
La sentenza d’appello è stata quindi cassata, e la causa rinviata ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma
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4) Ferie e prova di impossibilità di fruizione: cambio di orientamento
Giova ricordare che in passato era il lavoratore – e in particolare il dirigente – a dover dimostrare di non aver potuto fruire delle ferie per cause indipendenti dalla propria volontà. Questa era l’impostazione prevalente nella giurisprudenza della Corte di Cassazione fino a pochi anni fa.
La Corte riteneva che, in presenza di un dirigente con autonomia gestionale, spettasse a lui pianificare e prendersi le ferie, salvo provare che esigenze aziendali eccezionali e obiettive glielo avessero impedito. Di conseguenza:
Se il dirigente non usava le ferie, e non riusciva a dimostrare che il datore di lavoro lo avesse ostacolato, non aveva diritto all’indennità sostitutiva.
Questo orientamento si fondava su una lettura rigida del principio di autonomia dirigenziale e del divieto di monetizzazione previsto per il pubblico impiego, come stabilito dall’art. 5, comma 8, del D.L. 95/2012.
Con l’evoluzione della giurisprudenza – soprattutto a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia UE del 2018 e successive – la Corte di Cassazione ha progressivamente invertito l’onere della prova, affermando che:
- È il datore di lavoro a dover dimostrare di aver messo il dipendente in condizione concreta e trasparente di godere delle ferie, e
- Che il lavoratore è stato informato delle conseguenze della mancata fruizione.
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5) Confronto con la norma sulle ferie per il privato
Nel settore privato, la disciplina delle ferie e della loro eventuale monetizzazione è regolata principalmente dall'articolo 2109 del Codice Civile e dall'articolo 10 del Decreto Legislativo n. 66/2003.
- Articolo 2109 del Codice Civile: stabilisce che il lavoratore ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità. L'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie.
- Articolo 10 del D.Lgs. n. 66/2003: prevede che il lavoratore ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo non può essere sostituito da un'indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
- dirittolavoro.org
Nel settore pubblico, il divieto di monetizzazione delle ferie non godute è più stringente, come stabilito dall'articolo 5, comma 8, del D.L. n. 95/2012, convertito nella Legge n. 135/2012. Tale norma dispone che le ferie, i riposi e i permessi spettanti al personale delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Tuttavia, la giurisprudenza ha precisato che il divieto di monetizzazione non si applica nei casi in cui il mancato godimento delle ferie sia dovuto a cause non imputabili al lavoratore, come malattia o altre situazioni che impediscano la fruizione delle ferie.
In sintesi, nel settore privato, la monetizzazione delle ferie non godute è generalmente vietata durante il rapporto di lavoro, ma è ammessa al momento della cessazione del rapporto. Nel settore pubblico, il divieto è più rigido, ma la giurisprudenza ha riconosciuto eccezioni in presenza di cause non imputabili al lavoratore. In entrambi i casi, il diritto alle ferie è considerato fondamentale e irrinunciabile, e la loro fruizione effettiva è fortemente incentivata dalla normativa vigente.