Con la sentenza del 2 ottobre 2025 (causa C-573/24), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ottava sezione, è intervenuta su una questione di interpretazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, e della direttiva 2004/38/CE sul diritto di circolare e soggiornare liberamente nell’Unione.
La vicenda ha preso avvio da un contenzioso dinanzi al tribunale amministrativo di Oldenburg, Germania, in seguito al rifiuto da parte delle autorità tedesche di concedere a una cittadina di un Paese terzo l’autorizzazione all’esercizio della professione di medico in Germania, o in subordine, di ammetterla a una prova attitudinale.
La ricorrente aveva ottenuto il riconoscimento in Austria del titolo di laurea in medicina conseguito in Serbia, e aveva maturato un’esperienza professionale di oltre tre anni nello stesso Stato membro. Secondo il giudice tedesco, tali elementi avrebbero potuto consentirle di rientrare nel campo di applicazione della direttiva 2005/36/CE, richiamando anche la parità di trattamento prevista dall’articolo 24 della direttiva 2004/38/CE, in quanto coniuge di un cittadino dell’Unione.
La Corte, tuttavia, ha dichiarato irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale, chiarendo che i cittadini di Paesi terzi non possono avvalersi delle disposizioni della direttiva 2005/36/CE, neppure quando siano coniugi di cittadini europei che non abbiano esercitato la libertà di circolazione.
In estrema sintesi: gli Stati membri restano liberi di stabilire condizioni proprie per l’accesso alle professioni regolamentate, nel rispetto del principio di proporzionalità e delle garanzie procedurali interne.
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1) La ratio della decisione: ambito soggettivo e limiti del diritto UE
Nell’analisi della Corte, l’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2005/36/CE stabilisce chiaramente che essa si applica esclusivamente ai cittadini di uno Stato membro che intendano esercitare una professione regolamentata in un altro Stato membro. Ne consegue che i cittadini di Paesi terzi non rientrano nell’ambito di applicazione ratione personae della normativa sul riconoscimento automatico delle qualifiche professionali.
La Corte ha inoltre respinto l’argomento basato sulla direttiva 2004/38/CE, sottolineando che tale atto disciplina soltanto le condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini dell’Unione in Stati membri diversi da quello di cittadinanza. Pertanto, un cittadino di un Paese terzo, familiare di un cittadino europeo che non abbia esercitato la libertà di circolazione, non può rivendicare diritti derivati, compreso il principio di parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro di residenza.
Solo l’effettivo esercizio della libera circolazione da parte del cittadino europeo può generare effetti giuridici nei confronti dei suoi familiari non comunitari.
La Corte ha anche ricordato che l’eventuale riconoscimento di un titolo professionale da parte di uno Stato membro (nel caso di specie, l’Austria) non vincola automaticamente gli altri Stati membri, a meno che non ricorrano le condizioni previste dal diritto dell’Unione o da accordi bilaterali specifici.
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2) Conseguenze operative per gli Stati membri e i professionisti
Sul piano operativo, la pronuncia della Corte di Giustizia comporta un chiarimento importante per le amministrazioni nazionali e per i professionisti interessati al riconoscimento delle qualifiche:
gli Stati membri non sono tenuti a riconoscere titoli di formazione ottenuti in Paesi terzi solo perché tali titoli siano stati convalidati da un altro Stato membro, se il richiedente non possiede la cittadinanza di un Paese dell’Unione.
Per i consulenti e i professionisti che assistono cittadini extra-UE, la sentenza rafforza l’esigenza di distinguere nettamente tra:
- riconoscimento accademico (valido in uno Stato membro specifico), e
- riconoscimento professionale ai sensi della direttiva 2005/36/CE, riservato ai cittadini dell’Unione.
Gli Stati membri mantengono quindi ampia discrezionalità nel disciplinare le modalità di accesso alle professioni regolamentate per i cittadini di Paesi terzi, salvo diverse previsioni contenute in normative nazionali o accordi di reciprocità.
Dal punto di vista applicativo, la sentenza potrà avere impatti significativi anche in Italia, dove le autorità competenti per il riconoscimento dei titoli professionali esteri (Ministeri competenti, ordini professionali, università) dovranno continuare a verificare con rigore la cittadinanza e la residenza effettiva del richiedente, nonché l’eventuale esistenza di un diritto derivato riconosciuto dal diritto UE.
La Corte ha così ribadito un principio di equilibrio tra la tutela della libera circolazione e la competenza degli Stati membri nel riconoscere titoli e qualifiche, riaffermando che l’applicazione del diritto dell’Unione resta subordinata all’effettiva sussistenza di un elemento transnazionale.
In sintesi, la sentenza del 2 ottobre 2025 conferma che le norme europee sul riconoscimento automatico delle qualifiche professionali non possono essere estese a cittadini di Paesi terzi che non rientrano nei casi previsti dal diritto dell’Unione.
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