Con l’ordinanza n. 24558 del 4 settembre 2025 (udienza del 30 aprile 2025), la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – è tornata a pronunciarsi su due importanti questioni:
- licenziamento disciplinare per presunto abuso dei permessi retribuiti concessi ai sensi dell’articolo 33 della Legge n. 104 del 1992 e
- l'utilizzo dei risultati di indagini investigative sui dipendenti
La vicenda offre un’interessante occasione per chiarire i limiti entro i quali può essere accertato un uso improprio di tali permessi e, soprattutto, il corretto esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro.
Il caso riguarda un dipendente licenziato per aver, secondo il datore, utilizzato le giornate di permesso non per assistere il familiare disabile, ma per svolgere attività personali.
Dopo un primo grado sfavorevole al dipendente, la Corte d’Appello ha annullato il licenziamento, ritenendo che le attività contestate potessero comunque rientrare nell’ambito dell’assistenza indiretta e che la procedura disciplinare non avesse rispettato pienamente il diritto di difesa del lavoratore.
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1) Il caso e le decisioni di merito
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza n. 38/2024, aveva accolto il ricorso del lavoratore, riformando la decisione del Tribunale di primo grado.
In particolare, i giudici territoriali hanno ritenuto che le attività contestate – come fare la spesa o acquistare farmaci – potessero configurare un’assistenza indiretta compatibile con la finalità dei permessi ex Legge 104, richiamando il principio già espresso dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 20243/2020).
La Corte ha inoltre riscontrato una violazione del diritto di difesa, poiché il datore di lavoro aveva messo a disposizione il report investigativo solo in sede giudiziale, senza fornirlo preventivamente al lavoratore nella fase della contestazione disciplinare.
Altro elemento critico è risultato il difetto di prova circa la validità dell’autorizzazione prefettizia rilasciata agli investigatori privati, la cui legittimazione non risultava comprovata alla data dei fatti.
Sul tema vedi anche Privacy dipendenti diritto di accesso ai dati investigativi
In conseguenza di tali valutazioni, la Corte d’Appello ha disposto la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, con corresponsione di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto e il versamento dei contributi previdenziali per il periodo di estromissione.
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2) L'analisi dell Cassazione
Il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, articolando quattro motivi, tutti ritenuti infondati o inammissibili dalla Suprema Corte.
Nel primo motivo, la società lamentava la violazione dell’articolo 33 della Legge 104/1992, sostenendo che la Corte d’Appello avesse erroneamente escluso la necessità di un nesso causale diretto tra permessi e attività di assistenza.
La Cassazione ha respinto tale doglianza, chiarendo che la verifica dell’eventuale uso abusivo dei permessi è questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito, sulla base delle prove acquisite. Non è quindi consentito alla Corte di legittimità sindacare l’apprezzamento compiuto nei gradi precedenti (cfr. Cass. n. 509/2018; n. 29062/2017; n. 25290/2022).
Con il secondo motivo, il datore denunciava la violazione dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970), ritenendo che la mancata condivisione del report investigativo non incidesse sulla validità del procedimento disciplinare. Anche questa censura è stata rigettata: la Corte ha confermato che la contestazione deve consentire al lavoratore di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, indicando con chiarezza i fatti addebitati e la fonte delle informazioni, anche se non necessariamente tutte le prove.
Gli ulteriori motivi di ricorso – relativi all’asserita illogicità del rilievo sull’assenza di prove circa la simulazione di malattia e alla validità dell’autorizzazione prefettizia – sono stati dichiarati non decisivi, poiché non incidevano sui presupposti dell’annullamento del licenziamento.
La Cassazione ha dunque rigettato il ricorso, confermando integralmente la decisione della Corte d’Appello. La società è stata condannata al pagamento delle spese di lite e del contributo unificato aggiuntivo, ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002.
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