Nel dibattito sulla riforma dell’ordinamento professionale dei consulenti del lavoro si parla di competenze, riserve di attività, nuove responsabilità, aggiornamento delle funzioni. Si discute di ampliamento dei confini e tutela degli spazi professionali in un mercato in rapida trasformazione.
Ma un elemento rimane completamente escluso dal confronto: la struttura dei dati paghe e la loro effettiva portabilità.
È un’assenza che pesa.
Perché la professione, oggi, è costruita su dati elaborati, storicizzati e custoditi all’interno di sistemi gestionali complessi. Dati che alimentano l’intero sistema previdenziale, assistenziale e fiscale. Eppure, proprio questi dati non sono liberamente trasferibili, né pienamente accessibili al professionista che li ha generati.
Una riforma veramente moderna non può prescindere dal dato, che rappresenta la componente essenziale dell’identità tecnica della professione.
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1) Il dato paghe come infrastruttura del sistema lavoro
Il dato retributivo e contributivo non è un prodotto collaterale dell’attività amministrativa: è la sua sostanza. Ogni archivio paghe contiene informazioni che hanno valore non solo aziendale, ma sistemico.
In esso convivono la storia retributiva del lavoratore, la sua posizione previdenziale, l’evoluzione professionale, progressivi di varia natura, le basi di calcolo per pensioni, prestazioni e tutele.
Questi dati non appartengono solo alla sfera privata dell’impresa. Sono parte integrante della filiera pubblica del lavoro. L’INPS, l’INAIL, l’Agenzia delle Entrate, le Casse previdenziali, gli enti bilaterali, tutti dipendono dalla correttezza, completezza e continuità di queste informazioni.
Il dato paghe è quindi un bene ibrido: nasce in un contesto privato ma serve interessi generali.
È un patrimonio informativo di cui il consulente del lavoro è custode naturale.
Dati di interesse pubblico custoditi in sistemi privati non interoperabili
Nonostante il loro valore sistemico, i dati paghe rimangono spesso intrappolati in architetture proprietarie dei software gestionali. La loro estraibilità dipende dalla volontà commerciale del fornitore, non da principi normativi o standard tecnici condivisi.
Il risultato è duplice:
1. Le aziende non hanno reale controllo sul proprio patrimonio informativo.
2. I consulenti non possono esercitare pienamente la loro autonomia professionale, perché cambiare software significa affrontare migrazioni difficili, parziali o impossibili.
È una distorsione che non riguarda la tecnologia, ma il sistema che la ospita.
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2) Come vengono oggi generati i dati. Il nodo tecnico
I gestionali producono ogni mese migliaia di informazioni strutturate e semi-strutturate: anagrafiche, orari, voci retributive, elementi variabili, assenze, imponibili, contatori, progressivi annuali e storici.
Ad esempio:
• TFR maturato;
• ferie maturate, godute, residue;
• scatti e superminimi;
• variazioni di livello e categoria;
• storicizzazioni contrattuali;
• rapporti con enti esterni.
Questa stratificazione di calcoli, regole e compensazioni non è semplicemente “un dato”, è una elaborazione architettata dal professionista ed è qui nasce la frattura.
Il GDPR tutela il dato, non l’elaborazione
Il Regolamento UE 2016/679 riconosce all’interessato (che in ultima analisi è rappresentato dal lavoratore amministrato e dall’azienda datore di lavoro) il diritto alla portabilità dei dati personali.
Così l’art. 20:
• dati forniti dall’interessato;
• dati in formato strutturato, di uso comune, leggibile da dispositivo automatico;
• diritto di trasmetterli a un altro titolare.
Tutto corretto. Ma riguarda il dato grezzo. Non riguarda ciò che il professionista costruisce su quel dato.
Esempi:
• data di assunzione è dato personale → portabile;
• il TFR maturato è elaborazione tecnico-contabile → non tutelato dal GDPR;
• il numero di giorni di ferie maturati è calcolo → non è dato originario;
• i progressivi fiscali sono derivati → non rientrano nell’art. 20;
• gli imponibili previdenziali sono il risultato di regole e calcoli → non sono “dato fornito”.
Il GDPR, quindi, pur essendo indispensabile, non è sufficiente a garantire la piena portabilità degli archivi paghe.
Il professionista può ottenere i dati “di base”, ma non la struttura dinamica che essi hanno acquisito all’interno del gestionale.
Questo rende impossibile una migrazione completa e fedele.
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3) La migrazione dati come ricostruzione manuale: problema economico e concorrenziale
Quando un’azienda cambia consulente o un professionista cambia software, ciò che avviene non è una migrazione: è una ricostruzione.
I dati vengono consegnati, nella migliore delle ipotesi, in formato cartaceo o informatico assimilabile (PDF) che non possono essere semplicemente importati nel nuovo gestionale. Ma anche nelle rare ipotesi si ricevesse un export di dati, la successiva importazione, in un software diverso resta un’operazione complessa e da governare con la massima attenzione. Infatti, gestionali diversi avranno codici evento diversi, struttura tabelle e progressivi diversi e, in molti casi, linguaggi di programmazione diversi. Il risultato è una perdita fisiologica di informazioni.
Ed è qui che si crea il lock-in tecnologico: cambiare software diventa troppo oneroso.
L’impossibilità o comunque le difficoltà tecniche di trasferire i dati incidono direttamente su vari fattori quali libertà di scelta del professionista, sulla dinamica dei prezzi dei software, sulla qualità dell’innovazione tecnologica, sulla concorrenza tra gestionali e, in ultima analisi, sulla capacità degli studi di evolvere tramite la digitalizzazione.
Uno studio che ha dieci, quindici o vent’anni di archivi digitali non può realisticamente abbandonare il proprio software senza preventivare costi e rischi operativi.
Questo riduce la contendibilità del mercato, rallenta il progresso tecnologico e indebolisce la professione.
Perché oggi manca una norma specifica
Nessuna norma ha mai pensato a regolamentare la proprietà dei dati “prodotti” dal professionista, gli standard tecnici di interscambio tra software, l’obbligo di interoperabilità e le responsabilità dei fornitori in caso di migrazione.
La normativa attuale tutela la privacy, non la portabilità professionale. Tutela il lavoratore, non il flusso informativo che regge il sistema lavoro.
È un vuoto che la riforma dell’ordinamento potrebbe finalmente colmare.
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4) Una possibile nuova norma. Proprietà, portabilità, interoperabilità
L’introduzione di un principio normativo semplice può cambiare l’intero ecosistema:
“I dati generati, trattati o detenuti tramite software gestionali utilizzati dai consulenti del lavoro appartengono all’azienda assistita. I fornitori di software garantiscono la piena portabilità e interoperabilità dei dati in formati strutturati e aperti, idonei al trasferimento tra diversi consulenti del lavoro o sistemi informativi, senza pregiudizio per la continuità operativa.”
Le implicazioni sarebbero immediate:
• riconoscimento della titolarità tecnica del dato elaborato;
• responsabilità dei fornitori nella portabilità;
• nascita di uno standard minimo nazionale;
• apertura del mercato alla concorrenza;
• tutela delle aziende, dei professionisti e soprattutto dei lavoratori amministrati.
Verso uno standard nazionale del dato paghe
Non occorre definire un gestionale unico né un modello centralizzato. Serve una “spina dorsale” comune e obbligatoria:
• nomenclatura minima condivisa dei campi comuni a tutti i gestionali;
• formato JSON/XML per l’esportazione;
• mapping pubblico delle tabelle essenziali;
• dizionario nazionale dei codici evento;
• export completo degli storici e dei progressivi.
Il principio è semplice: software diversi possono fare cose diverse, ma devono tutti saper esportare il dato fondamentale in un formato comune.
Una riforma di questo tipo può essere introdotta gradualmente:
1. Tavolo tecnico nazionale tra professione, software house e istituzioni.
2. Definizione dello standard minimo del dato paghe.
3. Pubblicazione delle specifiche tecniche ufficiali.
4. Periodo di transizione per adeguamento dei sistemi.
5. Obbligo di export strutturato per ogni software certificato.
Non si tratta di imporre nuovi software, ma nuovi diritti.
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5) Conclusione: la riforma che decide il futuro
La digitalizzazione degli studi non può essere affidata alla buona volontà dei singoli. La tecnologia deve ampliare la libertà professionale, non ridurla.
Senza interoperabilità dei dati, l’evoluzione tecnologica rimarrà sempre incompleta e profondamente diseguale.
È possibile cambiare un CCNL, modificare un adempimento, aggiornare un software.
Ma finché i dati non saranno pienamente esportabili, la professione rimarrà legata al passato.
La portabilità dei dati paghe non è un tema tecnico.
È una questione di autonomia professionale (sancita anche dal codice deontologico del dei consulenti del lavoro)
La riforma dell’ordinamento può scegliere di guardare alle competenze, oppure può scegliere finalmente di guardare all’infrastruttura che regge tutto: il dato.
Perché la professione del futuro non si costruisce solo su ciò che sappiamo fare, ma su ciò che possiamo trasferire, conservare e rendere interoperabile.