Il comma 5 dell’art. 1138 c.c., introdotto dalla riforma del condominio con la legge n. 220/2012, stabilisce che le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici. La disposizione ha suscitato un ampio dibattito interpretativo, anche perché la Corte di Cassazione non si è ancora espressa in modo diretto sulla nuova formulazione normativa.
Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, la norma recepisce un principio già consolidato: i regolamenti condominiali approvati a maggioranza non possono limitare il diritto di proprietà esclusiva, vietando la presenza di animali domestici all’interno delle singole unità immobiliari. Tale orientamento si fonda sulla giurisprudenza antecedente alla riforma, che già escludeva la possibilità di introdurre divieti di questo tipo nei regolamenti ordinari, ritenendoli lesivi delle facoltà comprese nel diritto dominicale.
Una diversa e oggi prevalente interpretazione ritiene invece che il comma 5 debba essere letto alla luce della normativa nazionale e internazionale sulla tutela degli animali. In particolare, si fa riferimento alla Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia (Strasburgo, 1987), ratificata in Italia con la legge n. 201/2010, e alla legge n. 189/2004, che ha introdotto nel codice penale nuove fattispecie di reato a tutela degli animali, riconoscendoli come esseri senzienti. In tale prospettiva, il divieto di detenere animali domestici non sarebbe ammissibile neppure nei regolamenti contrattuali, ossia quelli predisposti dal costruttore e accettati dai singoli acquirenti al momento dell’acquisto.
La questione resta controversa, ma un punto fermo è rappresentato dal principio di convivenza civile: il diritto di possedere animali domestici non può tradursi in un pregiudizio per gli altri condomini. I cani, come qualsiasi altro animale, non devono arrecare disturbo, rumore e disagio agli altri partecipanti al condominio, nel rispetto delle regole di buon vicinato e delle disposizioni in materia di immissioni moleste.
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1) Il disturbo della quiete pubblica
Secondo l’articolo 844 c.c. il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni provenienti dal fondo vicino se non sono intollerabili, tenendo conto della natura dei luoghi e delle esigenze della produzione. Se le immissioni non superano la soglia di tollerabilità sono lecite.
Di conseguenza se il cane di un condomino abbaia è necessario valutare il rumore con un margine di tolleranza, come previsto dall’art. 844 c.c., poiché anche i cani hanno diritto di esprimersi vocalmente e non possono essere costretti al silenzio assoluto. Il rumore diventa giuridicamente rilevante e potenzialmente illecito solo quando è continuo, insistente, si verifica anche nelle ore notturne. Il condomino risponde del reato di cui all'art. 659 comma 1 c.p. (Disturbo della quiete pubblica) se non impedisce, nonostante le reiterate proteste degli altri condomini, il molesto abbaiare del cane (o dei cani), anche in ore notturne, custodito negli spazi esterni della sua abitazione. Per configurare questo reato non è sufficiente che il rumore disturbi un solo vicino. È necessario che il disturbo sia potenzialmente idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone (non solo i residenti dello stesso edificio, ma anche quelli dello stabile adiacente).
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2) L’allontanamento del cane
Se i cani di un condomino non vengono gestiti correttamente un giudice può anche ordinare al proprietario di provvedere immediatamente a trasferire altrove gli animali custoditi all’interno della propria unità immobiliare, prevedendo anche il pagamento di una somma per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine.
È quanto ha stabilito una recente ordinanza del Tribunale di Bologna (ordinanza del 27 ottobre 2025).
La vicenda prendeva l’avvio quando il proprietario di un appartamento al piano terra di un caseggiato lamentava gravi disagi causati dalla presenza di cani di grossa taglia detenuti dalla vicina. Secondo quanto riferito, gli animali venivano lasciati soli per molte ore, provocando odori nauseabondi derivanti dalle loro deiezioni, al punto che il ricorrente è costretto a tenere le finestre costantemente chiuse per evitare l’immissione di tali odori nella propria abitazione.
Successivamente, ai disagi olfattivi si sono aggiunti anche quelli acustici: l’abbaiare intenso e notturno dei cani rendeva difficile il riposo del ricorrente, nonostante le richieste di intervento rivolte all’amministratore condominiale e una successiva querela. Di fronte all’inerzia della situazione, il ricorrente decideva di ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento d’urgenza. Il condomino provava che le immissioni acustiche e olfattive erano costanti, invasive e non giustificate da esigenze produttive o da situazioni inevitabili; inoltre documentava, anche con certificati medici, come il continuo e reiterato abbaiare dei cani, anche e soprattutto nelle ore serali e notturne, destinate al riposo delle persone, gli avesse arrecato un grave pregiudizio alla salute con ripercussioni sull’attività lavorativa e sulla vita quotidiana.
In considerazione degli elementi probatori presentati, il Tribunale ha ritenuto fondata l’istanza cautelare urgente ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ordinando al vicino di provveda senza indugio a rimuovere i cani dalla propria abitazione.