Con la riforma del Codice della Crisi d’Impresa (D.Lgs. 14/2019), e con le successive modifiche del settembre 2024, si è tornati a parlare di continuità aziendale, di allerta precoce e di indicatori in grado di anticipare le situazioni di crisi.
All’inizio scoppiò quella che molti definirono “allertomania”: tabelle, soglie e calcoli in cui si cercava di individuare i segnali di pericolo attraverso cinque indici di bilancio, divisi per gruppi ATECO.
Ma la verità è che quei parametri, pur utili, osservavano il passato, perché rilevati a consuntivo, e spesso risultavano troppo generosi rispetto alla reale capacità delle imprese di reggere nel medio periodo.
Nel frattempo, la logica del controllo di gestione — che avrebbe dovuto costituire la base per la “ragionevole certezza di continuità” — restava, in molte aziende, ancora poco diffusa o applicata solo formalmente.
Uno degli indicatori più discussi è stato il DSCR (Debt Service Coverage Ratio), che misura la capacità dell’impresa di onorare i propri debiti finanziari in un determinato periodo.
Nella teoria, un valore superiore a 1 indica che l’azienda è in grado di far fronte ai propri impegni.
Nella pratica, però, questo parametro è fortemente influenzato da stime e ipotesi, spesso troppo ottimistiche.
Inoltre il DSCR tende a confondere le difficoltà temporanee di circolante (pagamenti, incassi, rotazione del magazzino) con una reale insolvenza, generando non di rado falsi positivi.
In altre parole, può segnalare una crisi dove in realtà c’è solo un momentaneo scompenso di liquidità.
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Nel nuovissimo libro " Guida alla Consulenza d’Impresa" lo stesso autore ha affrontato dettagliatamente l’argomento del BEF descrivendone la relativa formula ed i vantaggi nel suo utilizzo, in uno specifico capitolo.
La presentazione del libro si è svolta ad ottobre a Giulianova (TE) ed a Pescara.
Un ulteriore evento di discussione sulle tematiche affrontate nel libro si terrà presso le sedi della CNA di Teramo, venerdì 21 novembre alle ore 18:30.
1) Cercare un indicatore più concreto
Da tempo mi chiedo: esiste un modo più pragmatico per misurare la tenuta finanziaria dell’impresa, capace di andare oltre i numeri “stimati” e restituire una fotografia reale della sostenibilità nel tempo?
Dal 2018 sto testando, con risultati molto incoraggianti, un indicatore “fuori dagli schemi”: il Break-Even Finanziario (BEF).
Un concetto che non esiste in dottrina, ma che funziona nella pratica.
Il BEF è, in sostanza, l’equivalente finanziario del più noto Break-Even Point (BEP) ma mentre il BEP indica il livello di fatturato in cui i ricavi eguagliano i costi, il BEF indica il fatturato per cui le entrate eguagliano le uscite di cassa.
Per costruirlo, occorre “trasformare” i costi figurativi (come TFR e ammortamenti) in non costi, e considerare invece come costi tutte quelle voci che non transitano nel conto economico: rate capitale dei mutui, piani di rientro, cartelle esattoriali, distribuzioni di dividendi, ecc.
Può così accadere che un’azienda apparentemente solida — magari con 7 milioni di fatturato e 230.000 euro di utili — mostri in realtà un Break-Even Finanziario a 7,6 milioni, contro un BEP a 6,4.
Tradotto: l’azienda è in utile sul piano economico e quindi al sopra del punto di pareggio, ma in netto squilibrio finanziario. Il fatturato minimo che essa deve fare non può essere inferiore a 7,6 milioni di euro, pena un disavanzo finanziario.
Il BEF non lascia scampo ai dubbi: se non si raggiunge quel livello di fatturato, entrate e uscite non sono compensate.
È ovvio che, così come illustrato, il BEF non possa prendere in considerazione le variazioni che si potrebbero generare nel capitale circolante (debiti fornitori, crediti clienti e magazzino) o altri eventi straordinari (insolvenze, uscite impreviste, uscite per pagamenti su investimenti utilizzando la liquidità…) ma resta comunque un primo valido strumento di analisi, a parere di chi scrive più “concreto” del DSCR.
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2) DSCR e BEF: due strumenti complementari
Questo tuttavia non significa accantonare il DSCR, ma affiancarlo al BEF.
Il primo intercetta le dinamiche di breve periodo, il secondo restituisce una visione più ampia e tangibile della tenuta di cassa nel tempo. Lavorare con entrambi gli indicatori permette di evitare sia i falsi allarmi, sia gli ottimismi eccessivi.
Accanto a questi, può risultare utile anche un altro indicatore empirico ma efficace: il rapporto tra EBITDA (o MOL) su base annua e le rate annue complessive dei finanziamenti (quota capitale + interessi).
Un valore inferiore a 1, per esempio, segnala che l’impresa non genera flussi sufficienti a sostenere il proprio debito.
Anche questo non è un indice “ufficiale”, ma parla la lingua della realtà aziendale.
In definitiva, il Break-Even Finanziario non è una formula “miracolosa”, ma uno strumento che riporta l’attenzione sul cuore pulsante di ogni impresa: la liquidità. Non misura previsioni, ma fatti.
Non dipende da algoritmi, ma da flussi reali. Unendo BEF, DSCR e indicatori gestionali coerenti, possiamo finalmente andare oltre la visione puramente contabile della crisi e adottare una logica di monitoraggio continuo e sostenibile.
Perché, come spesso accade, non è il bilancio a raccontare per primo la verità dell’impresa, ma il conto corrente.