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DOPPIA IMPOSIZIONE ITALIA-SVIZZERA: COMMENTO SULLA TASSAZIONE

Doppia imposizione Italia-Svizzera: commento sulla tassazione

La doppia imposizione tra Italia e Svizzera sui dividendi: quando il 15 % rimane “intrappolato” nei vuoti operativi

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Pur nel rispetto formale della Convenzione tra Italia e Svizzera contro le doppie imposizioni, una quota del 15% sui dividendi transfrontalieri resta spesso irrimediabilmente “intrappolata”. 

La causa? Una divergenza applicativa: l’Italia considera la ritenuta definitiva, mentre la Svizzera, almeno per le persone fisiche, non riconosce un credito d’imposta effettivo. Ne scaturisce una doppia imposizione economica che, sebbene non configuri una violazione convenzionale, evidenzia una profonda disfunzione sistemica. Questo contributo prova ad analizzarne le cause, gli effetti e le possibili soluzioni

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1) Doppia imposizione Italia-Svizzera sui dividendi: quando il 15 % rimane “intrappolato” nei vuoti operativi

La questione della doppia imposizione economica sui dividendi distribuiti da società italiane a soggetti residenti in Svizzera – in particolare persone fisiche – è tornata al centro dell’attenzione dei professionisti del diritto tributario, alla luce di un dibattito tecnico emergente che evidenzia una distonia applicativa oramai strutturale.

Da un lato, l’Italia si attiene correttamente ai limiti stabiliti dalla Convenzione contro le doppie imposizioni (L. 943/1978), applicando una ritenuta alla fonte del 15% in conformità all’art. 10, paragrafo 2, che rappresenta il prelievo massimo consentito per i dividendi corrisposti a soggetti effettivamente residenti e beneficiari in Svizzera.

Dall’altro lato, però, le autorità fiscali svizzere – pur riconoscendo formalmente l’impostazione convenzionale – non attribuiscono, nella prassi, alcun credito d’imposta effettivo alle persone fisiche per l’imposta trattenuta in Italia.

In assenza di un rimborso da parte dell’Italia – che considera tale ritenuta legittimamente definitiva – questo disallineamento genera un vuoto operativo: il dividendo viene tassato integralmente sia nello Stato della fonte sia in quello di residenza, senza alcun meccanismo effettivo di compensazione.

Una situazione che, pur nel rispetto formale delle disposizioni convenzionali, comporta un’ingiustificata duplicazione del prelievo, sollevando interrogativi di merito sul coordinamento tra i due ordinamenti e sulle possibili soluzioni percorribili.


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2) Le basi convenzionali

Il fondamento giuridico del regime fiscale applicabile ai dividendi transfrontalieri tra Italia e Svizzera si rinviene nella Convenzione contro le doppie imposizioni siglata dai due Paesi (L. 943/1978), come modificata dal Protocollo del 2015.

In particolare, l’articolo 10, paragrafo 2, riveste un ruolo cruciale nel delineare i limiti della potestà impositiva dello Stato della fonte, ovvero l’Italia: tale disposizione stabilisce che, in caso di distribuzione di dividendi a un residente in Svizzera, l’Italia può applicare una ritenuta alla fonte non superiore al 15% del dividendo lordo, a condizione che il percettore sia il beneficiario effettivo del reddito e residente nell’altro Stato contraente.

In altre parole, l’art. 10 funge da “valvola di sicurezza” convenzionale, imponendo un tetto massimo all’imposizione fiscale esercitabile dallo Stato della fonte.

Complementare a tale previsione è l’art. 24 della medesima Convenzione, che interviene nella fase successiva e speculare: quella dello Stato di residenza del percettore, ovvero la Svizzera.

Tale disposizione impone infatti all’amministrazione fiscale svizzera l’obbligo di attenuare – o eliminare – gli effetti della doppia imposizione economica, mediante strumenti convenzionali quali il riconoscimento di un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero, una riduzione globale dell’imposta interna o, in alternativa, la deduzione dell’imposta estera dal reddito imponibile.

I due articoli, pur operando su piani distinti – l’uno nello Stato della fonte, l’altro nello Stato di residenza – rappresentano due cardini inscindibili dell’equilibrio fiscale bilaterale: il primo stabilisce “quanto può prelevare l’Italia”, il secondo “come la Svizzera deve evitare che lo stesso reddito venga tassato due volte”.

È proprio la loro interazione a garantire, almeno in linea teorica, la neutralizzazione della doppia imposizione e l’equità fiscale tra i due ordinamenti. 

Tuttavia, è sul piano applicativo di tale complementarità che emergono le criticità, specie con riferimento ai soggetti persone fisiche, come illustrato nei paragrafi che seguono.

3) Prassi divergenti nei due Stati

Sebbene la Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera preveda, in linea teorica, un sistema simmetrico e bilanciato di ripartizione della potestà impositiva, l’applicazione concreta nei due ordinamenti evidenzia un disallineamento significativo, soprattutto a danno delle persone fisiche.

In Italia, la prassi dell’Agenzia delle Entrate è consolidata nel ritenere legittimamente applicata – e dunque definitiva – la ritenuta alla fonte del 15%, prevista dall’articolo 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera (ratificata con L. 943/1978), qualora il prelievo sia operato entro i limiti convenzionali e in presenza del beneficiario effettivo del reddito.

Tale orientamento si fonda anche sull’interpretazione conforme al Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, che all’art. 10, par. 2, stabilisce un limite massimo di ritenuta alla fonte del 15% sui dividendi, attribuito allo Stato della fonte. 

In assenza di violazioni o applicazioni eccedenti, la ritenuta è considerata a titolo definitivo, senza previsione di meccanismi di rimborso da parte dello Stato erogante.

La prassi dell’Agenzia delle Entrate, confermata da risposte a interpello (es. n. 258 del 2021), ribadisce che la ritenuta del 15 % prevista dall’art. 10 è applicabile solo quando il beneficiario risulti effettivamente tale e residente in Svizzera secondo la Convenzione. In tali casi, la ritenuta è considerata definitiva. Un rimborso è ammesso solo se è stato effettivamente accertato un errore nell’applicazione dell’aliquota (ad esempio, applicazione del 26 % anziché del 15 %). 

In presenza di una ritenuta effettuata in misura eccedente rispetto all’aliquota convenzionale (es. 26% anziché 15%), il contribuente può presentare un’istanza di rimborso in carta libera, ai sensi dell’art. 38 del DPR 602/1973, indirizzandola al Centro Operativo competente dell’Agenzia delle Entrate. 

L’istanza deve essere corredata da documentazione idonea, tra cui il certificato di residenza fiscale svizzera e la dichiarazione di beneficiario effettivo del reddito. 

Sebbene in passato si facesse riferimento a un modulo specifico (provvedimento del 10 luglio 2013 Prot. n. 2013/84404), allo stato attuale non risulta disponibile alcun modulo nei canali ufficiali dell’Agenzia. 

Va ricordato che, in linea con la giurisprudenza di legittimità, la legittimità della ritenuta convenzionale – in assenza di violazioni formali – non può essere messa in discussione nemmeno in sede giudiziaria. 

La giurisprudenza italiana, in più occasioni, ha riconosciuto che la ritenuta alla fonte applicata nel rispetto delle previsioni convenzionali – ad esempio entro il limite del 15% stabilito dall’art. 10 della Convenzione Italia–Svizzera – costituisce espressione legittima della potestà impositiva dello Stato della fonte e, come tale, non dà luogo a rimborso. In tal senso, si è affermato che l’unico profilo impugnabile riguarda eventuali errori nell’applicazione dell’aliquota o nell’identificazione del beneficiario effettivo, ma non la legittimità del prelievo in sé (Cass. n. 10204/2024 e Cass. n. 25698/2022).

Tuttavia, anche laddove il prelievo sia corretto, l’effetto economico penalizzante per il contribuente si realizza in assenza di riconoscimento di un corrispondente credito d’imposta nello Stato di residenza. In tal senso, si realizza un vuoto di tutela che, pur non violando formalmente il diritto convenzionale, si traduce in una doppia imposizione economica non neutralizzata, contro lo spirito dell’art. 24 della Convenzione.

In conclusione, l’Italia – sebbene si attenga rigorosamente al limite convenzionale del 15% – non prevede alcuna forma di rimborso in assenza di errore o violazione. Il contribuente rimane dunque privo di tutela nel caso in cui la Svizzera, per motivi legati alla sua prassi interna, non riconosca il credito d’imposta su dividendi legittimamente tassati in Italia.

Diversamente, la Svizzera, pur essendo teoricamente vincolata all’obbligo convenzionale di evitare la doppia imposizione, adotta – almeno con riferimento alle persone fisiche – una prassi più restrittiva e frammentata, fondata su una interpretazione selettiva dell’art. 24 della Convenzione e sui principi del diritto fiscale elvetico.

In particolare, l’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC), come è ragionevole che sia, quando manchi un’imponibilità effettiva in Svizzera del dividendo estero percepito non riconosce sistematicamente un credito d’imposta per l’imposta italiana del 15% prelevata alla fonte, ritenendo che tale prelievo non sia computabile né ai fini dell’imposta federale diretta, né ai fini delle imposte cantonali o comunali,.

Questo orientamento è stato ricostruito in base alla prassi amministrativa elvetica e ad alcuni chiarimenti operativi rilasciati dall’AFC. 

Non sono tuttavia documentate specifiche circolari dell’AFC sul riconoscimento generale del credito d’imposta per imposte estere. La Comunicazione-014-V‑2021 fornisce esclusivamente indicazioni pratiche su come presentare le istanze di rimborso per imposte alla fonte estere nel contesto degli investimenti collettivi di capitale.

Secondo le indicazioni applicative diffuse dall’AFC, il credito sarebbe subordinato a tre condizioni cumulative:

  • imponibilità effettiva del reddito in Svizzera;
  • esistenza di un’imposta straniera effettivamente trattenuta in via obbligatoria;
  • capacità del contribuente di beneficiare dello sgravio, in base alla tassazione personale e al principio di progressività.

In base a tali criteri, nei casi in cui i dividendi di fonte estera non risultino imponibili in Svizzera (ad esempio, perché percepiti da soggetti con reddito complessivo basso o in presenza di soglie di esenzione) o siano soggetti a un’aliquota marginale nulla, l’AFC esclude la possibilità di riconoscere un credito d’imposta. In tali circostanze, l’art. 24 della Convenzione Italia–Svizzera non trova applicazione, poiché manca un fenomeno di doppia imposizione da eliminare: la ritenuta italiana, pur rimanendo interamente a carico del contribuente, non si cumula con un’imposizione svizzera sullo stesso reddito, generando quindi un credito “inutilizzabile” ma non una doppia imposizione in senso tecnico. .

In simili circostanze, alcune autorità cantonali invitano comunque il contribuente a rivolgersi all’Italia per chiedere il rimborso dell’imposta alla fonte. 

Si tratta, tuttavia, di un’indicazione più formale che sostanziale: quando la ritenuta italiana del 15% è applicata correttamente ai sensi dell’art. 10, par. 2, della Convenzione, non esiste nell’ordinamento italiano alcun fondamento per un rimborso. In assenza di un’aliquota eccedente, di un errore materiale, di un abuso del diritto o di una violazione della Convenzione, la ritenuta è considerata definitiva e non è giuridicamente restituibile.

Non risulta alcuna FAQ o istruzione ufficiale dell’Agenzia delle Entrate che dichiari espressamente che una ritenuta alla fonte correttamente applicata – entro i limiti convenzionali – sia definitiva e non rimborsabile. Ciononostante, questa impostazione è coerente con il quadro normativo (in particolare l’art. 165 del TUIR) e con le modalità implicite operate nelle pratiche di rimborso (quale la possibilità di istanza libera al Centro Operativo).

Inoltre, in caso di errore nell’applicazione della ritenuta o di prelievo in misura eccedente rispetto all’aliquota convenzionale, il contribuente può presentare un’istanza di rimborso in carta libera, ai sensi dell’art. 38 del DPR 602/1973, corredata dalla documentazione prevista. Attualmente, non è disponibile alcun modulo standardizzato nei canali ufficiali dell’Agenzia delle Entrate.

A livello sovranazionale, il Commentario OCSE agli articoli 23A e 23B, nei paragrafi 32.1–32.7, si sofferma esclusivamente sui conflicts of qualification, ossia sui casi in cui gli Stati contraenti attribuiscono una diversa qualificazione giuridica allo stesso reddito. 

Vengono analizzate le implicazioni che tali discrepanze comportano in termini di difficoltà nell’eliminazione della doppia imposizione. 

Tuttavia, questi paragrafi non affrontano né la questione del riconoscimento automatico del credito d’imposta, né introducono esplicitamente meccanismi di coordinamento amministrativo tra le autorità fiscali degli Stati contraenti.

In definitiva, la mancata attribuzione del credito d’imposta da parte della Svizzera non configura una violazione formale della Convenzione, ma riflette l’applicazione della disciplina interna elvetica, che esclude automatismi nel riconoscimento del credito, soprattutto per le persone fisiche. Tuttavia, tale impostazione, quando il reddito di provenienza italiana è effettivamente gravata da un’imposta elvetica, determina una doppia imposizione economica non neutralizzata, che svuota di contenuto la ratio dell’art.  24 della Convenzione e lascia il contribuente privo di strumenti convenzionali di riequilibrio, pur a fronte di una ritenuta correttamente applicata nello Stato della fonte.

4) Prassi amministrativa elvetica e riconoscimento condizionato del credito d’imposta estero

Il riconoscimento del credito d’imposta estero da parte dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) non avviene in modo automatico, neppure nei casi in cui i dividendi siano stati regolarmente assoggettati a ritenuta nello Stato della fonte, come previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera. In particolare, con riferimento ai dividendi percepiti da persone fisiche residenti in Svizzera, la prassi amministrativa elvetica mostra un’impostazione restrittiva, subordinando il riconoscimento del credito a una serie di condizioni sostanziali:

  • effettiva imponibilità del reddito in Svizzera: il dividendo estero deve essere soggetto a tassazione nel sistema tributario elvetico (federale, cantonale o comunale). Se, per effetto di deduzioni, franchigie, soglie di esenzione o progressività, il reddito non produce imposta, il credito d’imposta viene sistematicamente negato;
  • istanza entro un termine perentorio di tre anni dalla fine dell’anno fiscale in cui è sorto il diritto al rimborso, come previsto per il riconoscimento dell’imposta preventiva o di analoghi crediti fiscali;
  • adempimenti formali particolarmente rigorosi: la domanda deve essere presentata per iscritto, in doppia copia, accompagnata da specifica documentazione giustificativa (es. certificati fiscali esteri, prova dell’effettiva percezione, attestazioni sulla qualifica del reddito), e distinta per ciascun periodo d’imposta. Tale impostazione è esemplificata dalle istruzioni e dalle schede informative pubblicate periodicamente sul sito dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC), soprattutto in materia di investimenti collettivi, ma riflette modalità operative estendibili anche al contesto dei dividendi percepiti da persone fisiche.

A livello sistemico, questo approccio trova fondamento nella struttura multilivello del diritto tributario svizzero, caratterizzato dalla tassazione separata a livello federale, cantonale e comunale, e dall’applicazione di meccanismi di progressività che spesso riducono – o azzerano – l’onere impositivo in capo a soggetti a basso reddito. Tuttavia, la conseguenza pratica di tale impostazione è potenzialmente distorsiva.

Infatti, in molte situazioni reali – e con frequenza crescente – accade che un contribuente residente in Svizzera, pur avendo subito una ritenuta alla fonte del 15% in Italia, in piena conformità all’art. 10 della Convenzione, non ottenga alcun riconoscimento fiscale in Svizzera. In assenza di un’imposizione effettiva, e quindi della possibilità di “compensare” l’imposta già assolta all’estero, il credito viene negato, determinando una situazione paradossale: l’imposta italiana resta di fatto né rimborsabile in Italia, né utilizzabile in Svizzera. Tale ritenuta resta quindi “intrappolata” tra i due ordinamenti.

Questo disallineamento applicativo si verifica pur in assenza di violazioni formali della Convenzione. Nei casi in cui la Svizzera consideri il dividendo non imponibile e, di conseguenza, non riconosca alcun credito d’imposta, non si realizza una vera e propria doppia imposizione internazionale: si genera piuttosto un’imposta italiana pienamente legittima che il contribuente non può compensare nello Stato di residenza, producendo un ‘credito inutilizzabile. 

Nelle ipotesi in cui invece il dividendo di provenienza italiana fosse assoggettato ad imposizione in Svizzera senza un concreto riconoscimento del credito di imposta, l’assenza di clausole esplicite di salvaguardia o di coordinamento amministrativo tra le autorità fiscali nazionali determina che la tutela del contribuente risulti lacunosa.


5) Nessuna violazione della Convenzione

È fondamentale precisare che la criticità evidenziata – ossia la mancata eliminazione della doppia imposizione economica – non è riconducibile a una violazione della Convenzione bilaterale da parte di uno degli Stati contraenti. Né l’Italia né la Svizzera, infatti, disattendono formalmente gli obblighi convenzionali sottoscritti. Al contrario, entrambi si attengono alle disposizioni pattizie secondo le rispettive interpretazioni interne, agendo entro i margini di autonomia che ciascun ordinamento conserva nell’attuazione degli accordi internazionali.

Nel caso italiano, l’applicazione della ritenuta del 15% sui dividendi corrisposti a soggetti residenti in Svizzera risulta pienamente conforme all’articolo 10 della Convenzione, che legittima tale prelievo fino a quel limite. Non si configura, pertanto, alcun eccesso di imposizione o violazione del trattato da parte dell’Italia.

Sul versante svizzero, l’assenza di un meccanismo automatico e generalizzato di riconoscimento del credito d’imposta per i dividendi lordi già tassati in Italia – almeno con riferimento alle persone fisiche – non configura un rigetto della Convenzione, bensì rappresenta una conseguenza della struttura impositiva elvetica e della relativa prassi amministrativa consolidata.

Il diritto svizzero, infatti, applica in modo selettivo il principio del credito d’imposta, subordinandolo a requisiti sostanziali, quali l’imponibilità effettiva del reddito estero e la possibilità, per il contribuente, di beneficiare concretamente dello sgravio.

Si tratta, dunque, di un’interpretazione interna che – per quanto restrittiva – non appare in contrasto diretto con il testo convenzionale.

In sintesi, ci si trova dinanzi a un disallineamento operativo tra due sistemi fiscali che, pur rispettando formalmente la Convenzione, non riescono a integrarsi compiutamente nella sua attuazione concreta. Il risultato è un vuoto di tutela per il contribuente, generato non da un inadempimento, bensì da una carenza di coordinamento effettivo tra prassi amministrative e interpretazioni normative.

Ed è proprio per questo che la doppia imposizione che si realizza in questi casi – per quanto economicamente penalizzante – non può essere risolta con strumenti ordinari, ma richiede, semmai, un intervento sul piano interpretativo, bilaterale o giurisdizionale.

Giurisprudenza recente a tutela del contribuente

In questo contesto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25698 del 2022, ha affermato che il contribuente residente in Italia ha diritto al riconoscimento del credito d’imposta per l’imposta pagata all’estero qualora il reddito estero sia stato assoggettato a tassazione in Italia mediante  ritenuta alla fonte o imposta sostitutiva, purché il prelievo nazionale non sia il risultato di una scelta volontaria o di un’opzione esercitata dal contribuente stesso (successivamente, tale posizione interpretativa è stata condivisa nella sentenza n. 10204 del 2024).

Questa impostazione è stata accolta anche dalla giurisprudenza di merito, che ha progressivamente esteso la portata applicativa dell’art. 165 TUIR nell’ambito delle convenzioni contro le doppie imposizioni.

In tal senso, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano, nella sentenza n.  3184/2024, ha sancito che i contribuenti residenti in Italia possono detrarre dall’imposta italiana la ritenuta del 15% operata in Svizzera sui dividendi, anche quando la tassazione italiana avviene tramite imposta ‘secca’ obbligatoria. La decisione richiama l’art. 24 della Convenzione Italia–Svizzera e si allinea all’orientamento consolidato della Cassazione (sentenza n. 25698/2022), secondo cui la ritenuta dovuta ‘obbligatoriamente’ non esclude il diritto al credito d’imposta.

Un analogo principio è stato riaffermato dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Bergamo, con la sentenza n. 68/1/2025. In quella pronuncia, i giudici hanno riconosciuto la spettanza del credito d’imposta ex art. 165 TUIR in favore di un contribuente italiano che aveva subito una ritenuta alla fonte obbligatoria, a titolo d’imposta, da parte dell’Italia ai sensi dell’art.  27, comma 4 del DPR 600/1973, su dividendi di fonte svizzera. 

Il fatto che il prelievo avesse natura definitiva e non rimborsabile è stato ritenuto elemento sufficiente per attivare il meccanismo di sgravio previsto dalla normativa domestica.

In tutte queste decisioni, il denominatore comune è la valorizzazione del carattere obbligatorio della ritenuta a titolo di imposta o dell’imposta sostitutiva come modalità di attuazione dell’imposta italiana. Questo orientamento apre nuovi spazi applicativi per superare alcune rigidità amministrative e potrebbe rivelarsi decisivo, nel tempo, per colmare il gap di tutela attualmente esistente nei casi di doppia imposizione economica non eliminata sul piano convenzionale.

La distorsione operativa: il contribuente persona fisica tra due sistemi che non dialogano

Sul piano teorico, la Convenzione tra Italia e Svizzera dovrebbe garantire la neutralizzazione della doppia imposizione economica, attraverso una chiara ripartizione della potestà impositiva (art. 10) e un meccanismo di sgravio nello Stato di residenza (art. 24).

Nella prassi quotidiana, tuttavia, la situazione si complica sensibilmente per i contribuenti persone fisiche.

Si consideri, ad esempio, il caso – tutt’altro che raro – di un soggetto residente in Svizzera che percepisce dividendi da una S.r.l. italiana.

L’Italia applica correttamente una ritenuta alla fonte del 15% in virtù dell’art. 10 della Convenzione, trattandosi di un prelievo convenzionalmente ammesso e coerente con il proprio ordinamento interno (art. 27, comma 3-ter, DPR 600/1973).

La Svizzera, tuttavia, sulla base della propria prassi amministrativa, non riconosce alcun credito d’imposta per tale ritenuta nei confronti delle persone fisiche. Ne deriva che il medesimo reddito viene successivamente assoggettato a tassazione anche in Svizzera, senza alcun meccanismo effettivo di compensazione.

Il risultato può essere di due tipi:

  • se la Svizzera tassa quel dividendo, ma meno del 15%, si produce una doppia imposizione residua, in quanto il credito svizzero si ferma al livello dell’imposta interna e la ritenuta italiana resta parzialmente scoperta;
  • se invece la Svizzera non tassa affatto (per esenzione totale o perché l’imposta si azzera), non c’è doppia imposizione in senso tecnico, ma un’imposta italiana che resta integralmente a carico del contribuente per assenza di un credito utilizzabile.

È fondamentale chiarire che tale squilibrio non deriva da una violazione della Convenzione da parte di uno dei due Stati contraenti. Al contrario, entrambi applicano correttamente le rispettive normative interne e gli obblighi convenzionali. Il problema risiede nella mancata integrazione tra due prassi applicative distinte: da un lato, quella italiana, che considera la ritenuta definitiva e non rimborsabile; dall’altro, quella svizzera, che esclude il riconoscimento del credito per le persone fisiche. Una frattura operativa che, pur formalmente legittima, finisce per svuotare la finalità protettiva del trattato.

In questo scenario, il contribuente persona fisica risulta penalizzato da un disallineamento istituzionale che, se non affrontato a livello bilaterale o multilaterale, continuerà a generare una perdita secca del 15% — una trattenuta “intrappolata” tra due sistemi che, pur dialogando sul piano normativo, non si coordinano in modo effettivo sul piano applicativo.

Prospettive future: oltre il 15% “intrappolato”

Allo stato attuale, non esiste alcun rimedio giuridico ordinario – né in Italia né in Svizzera – che consenta al contribuente di ottenere il rimborso della ritenuta del 15% regolarmente applicata in Italia ai sensi dell’art. 10, par. 2 della Convenzione.

Tale prelievo rappresenta infatti una legittima espressione della potestà impositiva attribuita convenzionalmente allo Stato della fonte e, in quanto tale, è considerato definitivo secondo la normativa italiana (art. 27, co. 3-ter, DPR 600/1973) e la relativa prassi attuativa.

Neppure l’Italia può intervenire unilateralmente per compensarne gli effetti distorsivi, trattandosi di una ritenuta conforme sia al diritto interno sia al diritto convenzionale.

L’impasse si manifesta invece sul versante svizzero, dove non riconosce, nella prassi, un credito d’imposta effettivo in favore dei soggetti persone fisiche, se non nei limiti dell’imposta interna dovuta su quel reddito. Nei casi in cui tale imposta è pari a zero, il credito non viene attribuito: ciò non integra una doppia imposizione, ma determina un residuo estero non recuperabile.

Proprio per questo, il dibattito professionale più avanzato guarda oggi alla necessità di avviare azioni strategiche di carattere sistemico, volte a superare il disallineamento operativo tra i due ordinamenti.

In sede internazionale, un possibile canale d’intervento potrebbe essere rappresentato dall’OCSE o da altri organismi multilaterali competenti in materia di fiscalità transnazionale.

L’obiettivo sarebbe quello di promuovere una revisione del modello applicativo della clausola di sgravio, attraverso linee guida interpretative più vincolanti e coordinate, che escludano letture nazionali eccessivamente restrittive nei casi di doppia imposizione economica persistente.

Sul versante svizzero, una possibile – sebbene complessa – via di tutela risiede nei ricorsi amministrativi e contenziosi giudiziari contro il diniego di riconoscimento del credito d’imposta. In tali casi, il contribuente può sostenere che l’interpretazione restrittiva dell’art. 24 della Convenzione da parte dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) comprometta l’effettiva neutralizzazione della doppia imposizione, svuotando di contenuto la ratio dell’accordo.

Sebbene l’art. 26 della Convenzione di Vienna sancisca l’obbligo di esecuzione in buona fede degli accordi internazionali, la sua applicazione diretta nel contenzioso tributario interno svizzero risulta alquanto problematica e subordinata all’interpretazione delle autorità giudiziarie elvetiche in quanto, tale richiamo, pur rilevante sul piano internazionale, non garantisce automaticamente l’accoglimento del ricorso in sede elvetica, data la posizione della giurisprudenza interna in materia.

Un’eventuale affermazione giurisprudenziale – da parte delle autorità giudiziarie svizzere o, in ipotesi, di organi internazionali competenti (come la Corte EDU o meccanismi arbitrali previsti da convenzioni) – potrebbe costituire un precedente rilevante per riequilibrare l’applicazione dell’art. 24 e riaffermare il diritto del contribuente a non subire una doppia imposizione economica sul medesimo reddito.

In definitiva, la soluzione a tale disfunzione sistemica non può essere rimessa alla sola prassi amministrativa, ma richiede un intervento a livello politico, multilaterale o giurisdizionale, volto a ripristinare l’effettiva operatività dei meccanismi convenzionali e a garantire la coerenza dell’imposizione internazionale con i principi di equità e coordinamento fiscale tra Stati.

Tra architettura convenzionale e fratture applicative

Il caso dei dividendi tra Italia e Svizzera costituisce un esempio emblematico – e particolarmente istruttivo – di come una Convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni possa risultare formalmente solida nella sua struttura giuridica, ma presentare criticità applicative significative.

Sebbene l’impianto convenzionale – fondato sulla ripartizione del potere impositivo (art. 10) e sull’eliminazione della doppia imposizione nello Stato di residenza (art. 24) – sia coerente con il Modello OCSE, la sua attuazione concreta rivela limiti sistemici. In particolare, la mancanza di un effettivo coordinamento amministrativo tra le autorità fiscali dei due Stati comporta, nella prassi, due possibili effetti:

  • una doppia imposizione residua quando entrambi gli Stati tassano, ma il credito nello Stato di residenza non copre interamente la ritenuta estera;
  • un credito inutilizzabile, e non una doppia imposizione, quando lo Stato di residenza esenta del tutto quel reddito.

È proprio in questa discrepanza tra il piano teorico e la realtà operativa che si annida la criticità sostanziale: i contribuenti si trovano esposti a un prelievo fiscale complessivo eccessivo, senza reali possibilità di compensazione.

In questo contesto, i professionisti del settore – in primis i commercialisti – sono chiamati a intercettare, comprendere e spiegare le distorsioni sistemiche, nonché a proporre soluzioni alternative a tutela dell’interesse del cliente. 

Ciò implica non solo una padronanza approfondita delle regole convenzionali e domestiche, ma anche la capacità di muoversi in una dimensione strategica e transnazionale della consulenza tributaria.

In un simile scenario, il ruolo del consulente tributario si evolve: da semplice interprete del dato normativo a guida strategica, capace di individuare l’opportunità di interventi a livello internazionale (ad esempio, mediante la procedura amichevole o il ricorso a giurisdizioni estere), di stimolare un confronto costruttivo con le autorità fiscali e, quando necessario, di intraprendere le vie giudiziarie per rafforzare la tutela sostanziale del contribuente.

La sfida, dunque, non è solo tecnica, ma anche culturale: significa superare la mera applicazione letterale della norma, per promuovere una visione integrata e dinamica del diritto tributario internazionale, capace di restituire alla Convenzione la funzione per cui è nata – evitare che un contribuente, rispettoso della legge, paghi due volte sullo stesso reddito. 

(Articolo a cura di Roberto Bianchi e Luca Procopio)

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