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DEPOSITI SUI CONTI CORRENTI E CONFISCA DEL PROFITTO DEL REATO

Depositi sui conti correnti e confisca del profitto del reato

Rimessione alle Sezioni Unite per la confisca sui depositi dei conti correnti

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In merito alla possibilità di sottoporre a sequestro prima e confisca poi le disponibilità presenti sui conti correnti e sulle altre forme di deposito bancario, da tempo esistono due orientamenti in giurisprudenza.

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1) Primo orientamento

Il primo, ritiene che «qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato»[1], anche qualora si tratti di somme depositate su di un conto corrente bancario di cui l’autore dello stesso abbia la disponibilità[2] e, in particolare, ove si verta in tema di reati tributari rispetto ai quali nella maggioranza dei casi il provento del reato si manifesta invece sotto forma di risparmio di spesa, per cui «il denaro eventualmente esistente nelle casse dell'ente può e deve sequestrarsi in via diretta, ove possibile»[3]. Per tale giurisprudenza «nel caso in cui il profitto di un reato sia rappresentato da denaro o altre cose fungibili, la confisca delle somme o del "tantundem" rinvenute nella disponibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo ha percepito, anche sotto forma di un risparmio di spesa attraverso l'evasione dei tributi, avviene, alla luce della fungibilità di esso, sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente » senza che, a tal fine, occorra «la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato»[4]. Infatti, quando il profitto del reato è rappresentato da una somma di denaro, «questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta un’appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Non avrebbe, infatti, alcuna ragion d'essere - né sul piano economico né su quello giuridico - la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell'illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell'interesse del reo»[5], per cui «a rilevare è la prova della percezione illegittima della somma, non la sua materiale destinazione»[6]

Soltanto, quindi, nell’ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro, sorge l’eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l'imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, giacché, in tal caso, «si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (l'oggetto della confisca diretta non può essere appreso e si legittima, così, l'ablazione di altro bene di pari valore)»[7].

Tale interpretazione, tuttavia, non tiene conto del fatto che il deposito bancario possa essersi formato ed alimentato esclusivamente con apporti leciti, quali potrebbero essere, ad es., pensioni, stipendi, ecc., in particolare se in periodi del tutto svincolati da quello in cui è stato commesso il reato.

[1] Ex pluris, Cass. n. 23737/16, SS.UU. n. 31617/15, SS.UU. n. 10561/14.

[2] Cass. n. SS.UU. n. 31617/15.

[3] Cass. n. 49199/18.

[4] Cass. n. 41072/15, n. 39177/14.

[5] Cass. n. 13070/19, SS.UU. n 10561/14.

[6] Cass. n. 6348/19.

[7] Cass. n. 13070/19, SS.UU. n 10561/14.

2) Secondo orientamento

Ed, infatti, in base a diverso orientamento, si è invece affermato che per accertare se il denaro costituisce «profitto», cioè risparmio di spesa, del reato (e sia quindi aggredibile in via diretta), il giudice deve considerare esclusivamente le «disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento del debito tributario, avuto riguardo ovviamente non all'identità fisica delle somme, ma al loro valore numerario, che potrà essere oggetto di sequestro (e poi di confisca) in via diretta, solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il versamento dell'imposta, che del sequestro, con l'ulteriore conseguenza che il profitto non può essere mai considerato "diretto" per la parte eccedente il saldo alla data della scadenza del termine di pagamento, anche se non corrispondente all'ammontare dell'imposta evasa»[1]

In termini esemplificativi si esprime la stessa Suprema Corte quando afferma che «così, per esempio, se alla data di scadenza il conto corrente ha una disponibilità liquida di € 100,00 e il debito tributario è pari ad € 1.000,00, la somma di denaro che può essere sequestrata direttamente non potrà mai essere superiore a € 100,00, nemmeno se alla data del sequestro tali disponibilità dovessero essere aumentate fino a coprire tutto il debito perché per l'ammontare residuo il sequestro può essere concepito solo "per equivalente"»[2]

Tale orientamento sembra ormai consolidarsi se si considera che, ancor più recentemente, si è confermato che, nonostante la natura fungibile del denaro, deve ritenersi preclusa la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, qualora sia stata raggiunta la prova che le stesse non derivino dal reato, non costituendo, in tale caso, profitto dell'illecito. È illegittima, pertanto, l'apprensione diretta delle somme di denaro entrate nel patrimonio del reo in base ad un titolo lecito ovvero in relazione a un credito sorto dopo la commissione del reato, che non risultino allo stesso collegate, neppure indirettamente[3], salva la dimostrazione contraria. Ne consegue, quindi, che, ai fini della ricostruzione della disciplina applicabile alla confisca del denaro presente sul conto corrente dell'imputato, in particolare in tema di reati tributari, diviene essenziale l’accertamento del saldo esistente alla data di consumazione del reato, perché permette di qualificare il provvedimento con il quale è disposta l'apprensione in termini di confisca «diretta» o «per equivalente»[4]. Pertanto, ove si abbia la prova che le somme giacenti sul conto non possano proprio in alcun modo derivare dal reato, le stesse neppure possono, evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (ovvero, in altri termini del «risparmio di imposta» nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari). E, dunque, non sono sottoponibili a sequestro, difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per potere procedere, in base alle definizioni e ai principi di carattere generale, ad un sequestro, come quello di specie, in via diretta[5].

Tuttavia, «se … il denaro che affluisca sul conto corrente successivamente alla commissione del reato, non può, come chiarito in più occasioni da questa Corte, costituire il profitto del reato tributario, rappresentato infatti dal risparmio di imposta conseguente all'omissione di versamento del quantum corrispondente[6] ciò non toglie che questo stesso denaro sia suscettibile di confisca (e, corrispondentemente, di sequestro ad essa finalizzato) per equivalente, assumendo in tal caso le caratteristiche di valore corrispondente al profitto non rinvenuto e, dunque, come tale non sottoponibile, in prima battuta, secondo il "meccanismo" forgiato dall'art. 322-ter cod. pen., a sequestro in via diretta»[7].

Resta in ogni caso onere della difesa allegare circostanze specifiche da cui desumere che, alla data di consumazione del reato, non vi fossero sul predetto conto somme liquide a disposizione del contribuente o che il denaro sequestrato sia frutto di accrediti con causa lecita effettuati successivamente a tale momento[8].

[1] Cass. n. 6348/19 e n. 28223/16.

[2] Cass. n. 12058/20, n. 22061/19, n. 28223/16.

[3] Cass. n. 3733/21, n. 6816/19, n. 41104/18.

[4] Cass. n. 3733/21, n. 6348/19.

[5] Cass. n. 7434/21.

[6] Cass. n. 6163/21, n. 6348/19, n. 8995/18.

[7] Cass. n. 6163/21.

[8] Cass. n. 7434/21, n. 23040/20.

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3) la parola passa alle Sezioni Unite

L’oscillante orientamento giurisprudenziale ha portato comunque di recente alla rimessione alle SS.UU. della questione e, cioè, se la misura ablativa sul denaro debba considerarsi sempre diretta, stante la fungibilità di detto bene o se, invece, tale presunzione sia superabile dalla dimostrazione che le disponibilità oggetto del provvedimento non possono derivare dal reato essendosi formate lecitamente[1]

[1] Cass. Ord. n. 7021/21.

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