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SEMPRE APERTA LA RIVALUTAZIONE DELLE PARTECIPAZIONI, MA ATTENTI ALL’ABUSO DEL DIRITTO

Sempre aperta la rivalutazione delle partecipazioni, ma attenti all’abuso del diritto

L’imposta sostitutiva copre i redditi diversi, non i redditi di capitale di cui all’art.47, comma 7, del TUIR

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Introdotta con l’articolo 5 della legge n.448/2001, la rivalutazione delle partecipazioni (e dei terreni) è una disciplina nata come “straordinaria”, ma ormai entrata a regime, viste le innumerevoli riaperture dei termini, dapprima a singhiozzo e poi in maniera continuativa (dal 2013 al 2021, con ben nove provvedimenti consecutivi).

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1) Come funziona la rivalutazione delle partecipazioni

Il funzionamento della disciplina è ormai ben noto, date le circostanze. È consentito, sulla base di una perizia giurata di stima redatta da un iscritto all’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, rivalutare la partecipazione detenuta da una persona fisica in una società non quotata. Si tratta tecnicamente di una rideterminazione del valore e non di una rivalutazione, perché è l’intero valore di perizia ad essere assoggettato all’imposta sostitutiva, attualmente prevista nella misura dell’11 per cento, e non solo il maggior valore rispetto al costo già riconosciuto in capo al socio.

La perizia deve essere giurata, e l’imposta sostitutiva pagata, entro il 30 giugno di ogni anno di riapertura, in riferimento a partecipazioni possedute alla data del 1° gennaio dello stesso anno (quindi, allo stato, versamento entro il 30 giugno 2021 per partecipazioni possedute alla data del 1° gennaio 2021). È consentito il rateizzo del pagamento dell’imposta sostitutiva, con ripartizione in tre rate, aventi scadenza la prima il 30 giugno 2021, e le successive il 30 giugno 2022 ed il 30 giugno 2023, con applicazione degli interessi nella misura del 3 per cento.

Il riconoscimento del valore su cui si paga l’imposta sostitutiva ha effetto ai fini della determinazione delle plusvalenze da cessione di partecipazione realizzate da persone fisiche ex art. 67 del TUIR. Ciò significa non solo che le società che detengono partecipazioni non possono beneficiare di questa disciplina (come si evince dalla lettera della norma), ma anche che il maggior valore non è riconosciuto in caso di recesso, liquidazione, esclusione del socio, e per tutti gli altri casi disciplinati dall’articolo 47, comma 7, del TUIR (come risulta in via interpretativa).

Questa interpretazione, restrittiva, è stata fatta propria dall’Agenzia delle entrate fin da principio nella prassi divulgata in materia (circolari n. 12/E del 31 gennaio 2002, n. 26/E del 16 giugno 2004 e n. 16/E del 22 aprile 2005), ed è stata oggetto di feroce contestazione da parte della dottrina. Ad oggi, però, bisogna prendere atto della circostanza che il Legislatore, che pure è intervenuto per modificare alcuni aspetti della norma, non ha inteso allargarne esplicitamente il campo di applicazione, con ciò avallando implicitamente la posizione dell’Agenzia delle entrate.

L’impossibilità di avvalersi del valore rivalutato ai fini del recesso e della liquidazione della partecipazione ha un grande impatto sulla comprensione della ratio della rivalutazione, la quale a sua volta è centrale nella valutazione della condotta del contribuente dal punto di vista dell’abuso del diritto. Come è noto, infatti, ai sensi dell’articolo 10-bis della legge n.212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), si rileva un abuso del diritto quando, nell’operazione messa in atto, sono riscontrate:

- contrarietà alla ratio della norma fiscale utilizzata;

- assenza di sostanza economica;

- essenzialità del vantaggio fiscale;

- assenza di valide ragioni extrafiscali a supporto delle scelte effettuate.

Il restringimento del campo di applicazione della rivalutazione alle sole ipotesi di vendita della partecipazione (e realizzo di plusvalenza ex art. 67 del TUIR) comporta che ogni operazione che, di fatto, non è finalizzata alla cessione a terzi ed alla circolazione della partecipazione stessa è da considerare contraria alla ratio della norma.

I casi più rilevanti in cui questo può emergere sono il leveraged cash out ed il family buy out.

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2) Leveraged cash out

Con il leveraged cash out si utilizza la rivalutazione delle partecipazioni in una società target, tipicamente una società di capitali con pochi soci ed alta potenzialità reddituale, per facilitare la vendita delle partecipazioni rivalutate ad una holding (società veicolo, anch’essa società di capitali) partecipata dagli stessi soci nelle medesime percentuali della società target.

Così, la società veicolo presenta all’attivo del suo stato patrimoniale la partecipazione nella target ed al passivo un debito verso i suoi soci dello stesso importo della partecipazione acquistata, per il cui pagamento si farà ricorso  alla liquidità che la società veicolo acquisisce attraverso le distribuzioni di utili da parte della target (oppure attraverso un finanziamento bancario da restituire grazie alla liquidità prodotta dai dividendi percepiti). La conclusione è che i soci ottengono gli utili della loro società operativa, ma non sotto forma di dividendi bensì sotto forma di corrispettivo della cessione della partecipazione.

La trasformazione di dividendi in corrispettivo della cessione delle partecipazioni è vantaggiosa perché il carico fiscale dei primi (26 per cento, in linea di massima) è interamente sostituito dal pagamento dell’imposta sulla rivalutazione nella misura dell’11 per cento. Si tratta, però, di una operazione da maneggiare con attenzione perché si presta a costituire una fattispecie di abuso del diritto.

3) Family buy out

Nel family buy out i soci di prima generazione, che detengono la maggioranza del capitale di una società di capitali operativa (società target), intendono cedere il testimone ai soci di seconda generazione. Si tratta, quindi, di un’operazione cui tipicamente si fa ricorso per favorire il passaggio generazionale.

Per attuarla i soci di seconda generazione costituiscono una società veicolo, che acquista le partecipazioni dei soci di prima generazione. L’interposizione di una società veicolo, destinata solitamente alla fusione con la target, può consentire ai soci di seconda generazione di avvalersi degli utili prodotti dalla target stessa al fine di saldare il debito relativo all’acquisto delle partecipazioni (o il debito contratto con le banche, nel caso) in modo più immediato ed efficiente (non sarebbero assoggettati alla ritenuta del 26% sui dividendi), soprattutto ove fosse effettivamente impossibile reperire altrimenti il denaro per il pagamento.

Sennonché, questa stessa interposizione, che permette il pagamento con mezzi della target, rende l’operazione simile ad un recesso tipico, poiché anche in ipotesi di recesso tipico i soci uscenti ottengono dalla società il pagamento di quanto loro dovuto.

Tanto basta all’Agenzia delle entrate per qualificare l’operazione come elusiva, e contestare l’abuso del diritto (si veda ad esempio la risposta n.341 del 23 agosto 2019). Si tratta di una posizione non condivisibile, ma di cui occorre tenere conto prima di pianificare un passaggio generazionale con family buy out.

Peraltro, uno schema simile può essere messo in atto anche al di fuori dell’ambito familiare, senza per questo essere al riparo da possibili contestazioni. Non è chiarissimo, peraltro, quanto l’assenza di rapporti familiari ed il riscontro di differenti rapporti “di forza”, nell’ambito di un gruppo non legato da vincoli familiari, possa interferire con la valutazione da parte dell’Agenzia delle entrate, come dimostra la risposta n. 242 del 5 agosto 2020, il cui esito è di non facile coordinamento con quello della già citata risposta n.341/2019. 

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