Come il legislatore risponde alla fervida immaginazione dei contribuenti
Segue articolo dalla Rivista delle Finanze, Seconda parte:
"Riprendendo l’esempio già fatto, se i 400 di interessi passivi pagati alla banca in Italia corrispondono specularmente a 400 di interessi attivi pagati dalla banca estera, due circostanze sono evidenti:
1. il nostro imprenditore si è “auto-prestato” soldi
2. l’“autoprestito” è avvenuto grazie all’interposizione della banca, la quale sicuramente lucrerà una commissione da interposizione.
Il risultato finale è che imprenditore e banca ci guadagnano a danno dell’Erario italiano: la banca incassa la commissione e l’imprenditore italiano non paga un euro di tasse in Italia sui profitti realizzati.
Messo di fronte a questa situazione, l’uomo qualunque più scaltro potrebbe obiettare: “questo è vero, ma il nostro imprenditore dovrà pagare imposte sui 400 euro di interessi attivi incassati in Svizzera e, quand’anche in tale Paese non pagasse un euro di tasse, perché gli interessi attivi non sono là tassati, è comunque obbligato a dichiarare in Italia gli interessi attivi incassati in Svizzera, perché, come ogni residente in Italia, è tassato sui redditi ovunque prodotti”.
Tutto ciò è vero, ma solo in teoria.
Nella pratica, il nostro imprenditore potrà “spersonalizzare” la propria ricchezza, intestandola a società fiduciarie e trust residenti in Svizzera; in alternativa, qualora non si fidasse di chi dovrà poi gestire i suoi soldi, farà questo semplice ragionamento: “che possibilità ha il Fisco italiano di “scoprire” che non ho pagato le tasse in Italia per interessi attivi guadagnati su un anonimo conto svizzero?”.
Se la risposta a tale domanda è che il Fisco italiano ha basse probabilità, il nostro bravo imprenditore non dichiarerà un euro al Fisco italiano (qui subentra un calcolo costi-benefici da effettuarsi sulla base dell’effettività delle disposizioni normative contenute nella direttiva n. 2003/48/Ce, in materia di tassazione del risparmio transfrontaliero, a contrastare possibili evasioni fiscali).
Il discorso finora svolto per l’imprenditore individuale si complica se si rapporta ai gruppi societari multinazionali.
Il principio sottostante rimane comunque lo stesso: in un’epoca di globalizzazione dei mercati finanziari, i finanziamenti costituiscono un agevole strumento di pianificazione tributaria internazionale, volta a minimizzare il carico impositivo negli Stati a medio-alta fiscalità e a trasferire redditi in Stati a bassa fiscalità o che concedono regimi fiscali privilegiati.
Di fronte a siffatto quadro di riferimento, quale sarà la risposta politica più appropriata?
È evidente che l’uomo qualunque non potrà più candidamente affermare che la limitazione alla deduzione fiscale degli interessi penalizza gli investimenti produttivi, perché dietro a questi si può sempre annidare il trucco degli “autofinanziamenti”.
La risposta più sensata potrebbe, allora, essere quella di distinguere i “veri” finanziamenti dagli “autofinanziamenti”, concedendo la piena deducibilità degli interessi passivi pagati sui primi e negando totalmente la deducibilità a quelli pagati sui secondi.
Tuttavia, riflettendoci un po’ sopra, ci si rende subito conto che non è poi così tanto facile per il Fisco italiano scoprire che in Svizzera il nostro imprenditore ha aperto un conto anonimo su cui vanno a finire i profitti guadagnati in Italia, o che ha “spersonalizzato” la sua ricchezza finanziaria.
Verrà naturale suggerire al legislatore la stipula di accordi tra Autorità politiche, italiane e svizzere.
Tuttavia, gli accordi devono essere voluti da entrambi i contraenti e le Autorità politiche svizzere potranno obiettare a quelle italiane che se i conti anonimi sono svelati per fini fiscali all’Erario italiano, escogitando meccanismi di “ripersonalizzazione” della ricchezza, nessun residente italiano depositerà più un euro nelle banche svizzere, rivolgendosi, ad esempio, a quelle monegasche. Così, la Svizzera, che ha fatto nei secoli del segreto bancario la sua principale fonte di ricchezza, rifiuterà l’accordo.
Le autorità elvetiche potranno rispondere a quelle italiane che solo un accordo multilaterale, cioè tra tutti gli Stati del mondo, può risolvere il problema.
Tuttavia, il nostro uomo qualunque si renderà conto che un accordo del genere difficilmente vedrà mai la luce. E anche se ciò avvenisse, ci sarebbe sempre il rischio che qualche Stato “predichi” bene ma razzoli male.
In questa logica di fondo, è tutta da verificare l’effettiva tenuta sul campo delle previsioni normative contenute nella direttiva n. 2003/48/Ce, in materia di tassazione del risparmio transfrontaliero, la quale comunque non si applica a soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche beneficiarie effettive.
Che cosa rimane allora da fare al nostro legislatore?
Risolvere il problema alla radice: negare la deducibilità degli interessi passivi sopportati dagli imprenditori residenti in Italia. Proprio perché consapevole che ci sono imprenditori che quando si indebitano con le banche lo fanno per davvero, la deducibilità non è totale ma parziale.
In tal modo, gli imprenditori che si indebitano per davvero saranno costretti a pagare, in termini di parziale indeducibilità degli interessi passivi, il prezzo di quelli che lo fanno solo finta, i quali, pur subendo la parziale indeducibilità, potranno continuare a trasferire all’estero parte dei profitti guadagnati in Italia.
E’ questa, a mio parere, la filosofia ultima delle proposte di modifica normativa contenute nel disegno di legge finanziaria per il 2008.
Un’ultima osservazione – questa rivolta principalmente agli esperti fiscali – va fatta sulla previsione normativa contenuta nel 3° comma dell’articolo 96 del Tuir, in corso di approvazione.
Consapevole che a seguito della parziale indeducibilità degli interessi passivi, la fervida immaginazione dei contribuenti tenterà di escogitare manovre volte ad aggirare i nuovi limiti in modo da continuare a trasferire impunemente all’estero ricchezza prodotta in Italia, il legislatore ha accolto una nozione sostanzialistica di interessi passivi.
Sono stati, infatti, equiparati agli interessi passivi gli oneri e i proventi assimilati, derivanti da contratti di mutuo, da contratti di locazione finanziaria, dall’emissione di obbligazioni e titoli similari e da ogni altro rapporto avente causa finanziaria, con esclusione degli interessi impliciti derivanti da debiti di natura commerciale.
In tal modo, se – per magia di finanza aziendale creativa – un interesse passivo si trasforma in un costo per derivati sostanzialmente assimilabile a un interesse passivo, anche questo costo subirà la relativa indeducibilità ai fini fiscali. Michele Andriola"