IL CASO
Il lavoratore conveniva in giudizio l’azienda, formulando le seguenti conclusioni:
1) accertare e dichiarare l’illegittimità della Delibera e del successivo provvedimento attuativo, con i quali era stato disposto e attuato, il rientro dal distacco del lavoratore, con contestuale assegnazione alla direzione dell’Area Assistenza e Servizi Integrativi presso la distaccante azienda;
2) accertare e dichiarare l’illegittimità del provvedimento datoriale col quale era stato riformulato in qualità di quadro l’incarico di Coordinamento del gruppo lavorativo preposto alle attività inerenti gli studi, la ideazione, la possibile costituzione e la seguente gestione di un Fondo Sanitario Integrativo e anche in forma disgiunta dal Fondo stesso, della polizza sanitaria integrativa a favore degli iscritti;
3) accertare e dichiarare che le mansioni svolte dal lavoratore, a seguito e per effetto dei provvedimenti datoriali oggetto di impugnazione, non potevano ritenersi equivalenti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2103 c.c., a quelle precedentemente disimpegnate;
4) accertare e dichiarare l’illegittimità del comportamento datoriale, in cui aveva subito una vera e propria sottrazione di mansioni, posto che la Polizza Sanitaria Integrativa di cui ella avrebbe dovuto occuparsi, di fatto, era divenuta operativa solamente nel mese di gennaio 2015, a distanza di nove mesi dal provvedimento di rientro dal distacco;
5) ordinare all’azienda (previo annullamento dei provvedimenti sopra citati e oggetto di impugnazione) di ripristinare le mansioni in precedenza svolte e/o attribuire alla stessa mansioni equivalenti, ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui all’art. 2103 c.c.;
6) accertare e dichiarare il danno alla salute subito e subendo e condannare la controparte al relativo risarcimento alla salute nella misura non inferiore ad €. 50.00,00;
7) condannare la convenuta al risarcimento degli ulteriori danni di natura non patrimoniale: danno morale, danno all’immagine, alla dignità personale e professionale, nella misura ritenuta di giustizia;
8) condannare l’azienda al risarcimento del danno da dequalificazione professionale nella misura ritenuta di giustizia.
Il Tribunale di Roma rigetta il ricorso, precisando che l’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015, che ha integralmente sostituito l’art. 2103 c.c., introduce, tra le tante novità anche l’esercizio del c.d. jus variandi orizzontale, vale a dire lo spostamento del dipendente a mansioni equivalenti. Mentre il previgente testo della norma consentiva una simile variazione a condizione che le nuove mansioni fossero «equivalenti alle ultime effettivamente svolte», quello attualmente in vigore permette l’assegnazione di «mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Il giudizio di equivalenza, pertanto, deve essere condotto assumendo quale parametro non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza dal dipendente, bensì solamente le astratte previsioni del sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto. Ne consegue che, a differenza che nel passato, è oggi legittimo lo spostamento del lavoratore a mansioni che appartengono allo stesso livello di inquadramento cui appartenevano quelle svolte in precedenza dallo stesso dipendente, non dovendosi più accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente. Infatti, in base a ciò è possibile affermare che “il divieto per il datore di lavoro di variazione in "pejus" ex art. 2103 cod. civ., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso”.
IL COMMENTO
1. Art. 2103 c.c.: equivalenza ed inquadramento
Sul concetto di equivalenza, nel settore privato, come è noto, è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. Ed invero sul punto la Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha rilevato che è "ben possibile che il contratto collettivo accorpi nella stessa qualifica mansioni diverse che esprimono distinte professionalità. Nulla esclude che queste professionalità costituiscano lo sbocco di percorsi formativi distinti, in ipotesi anche di livello diverso. L'equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte tali mansioni così accorpate, ancorchè espressione di diverse professionalità" (Cass. civ., sez. un., 24.11.2006, n. 25033)[1].
Per contro il nuovo articolo 2103 c.c., sostituito integralmente dall’art. 3 del d.lgs. 81/2015, sembra far proprio un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. In sostanza il legislatore del 2015 ha esteso al settore del lavoro alle dipendenze di privati un regime analogo a quello previsto dall’art. 52 d. lgs. n. 165 del 2001 per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il quale dispone genericamente che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento [...]». Da ciò si ricava che assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione. In quest'ottica, condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (Cass. SS.UU., 4.4.2008, n. 8740; Cass. sez. lav., 21.5.2009, n. 11835).
Infine, va ricordato che il comma 9 del nuovo art. 2103 c.c., ribadisce che “… ogni patto contrario è nullo” e costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (in passato v. Cass., sez. lav., 24 gennaio 1987, n. 672; fino a Cass., sez. lav., 3 settembre 2002, n. 12821; conf. a quest'ultima Cass. n. 20983 del 29 ottobre 2004, n. 18719 del 16 settembre 2004, n. 12251 del 20 agosto 2003, n. 7606 del 15 maggio 2003, n. 6614 del 28 aprile 2003, n. 1494 del 30 gennaio 2003) che la nullità dei patti contrari, comminata dal citato art. 2103 c.c., riguarda anche il contratto collettivo. Ciò del resto si desume in positivo dal dato normativo testuale dell’art. 40 della L. 300/1970, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché a contrario da altre disposizioni con cui eccezionalmente il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del dell'art. 2103 c.c. (quale l’art. 4, comma 11, della L. 23 luglio 1991, n. 223, che stabilisce che "gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga all’art. 2103 c.c., la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”).
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1) 2. Jus variandi orizzontale e precedenti orientamenti giurisprudenziali
Il nuovo articolo 2103 c.c., sostituito dal d.lgs. 81/2015 ritiene che è oggi legittimo lo spostamento del lavoratore a mansioni che appartengono allo stesso livello di inquadramento cui appartenevano quelle svolte in precedenza dallo stesso dipendente, non dovendosi più accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente. In applicazione a tale principio, possiamo citare precedenti giurisprudenziali di legittimità, ossia:
- la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, aveva escluso l'applicabilità dell’art. 2103 c.c. in riferimento alla posizione di un dipendente delle Poste Italiane che, originariamente inquadrato nel quarto livello con la qualifica di pittore, era stato addetto alle mansioni di portalettere, appartenenti alla medesima area funzionale, a seguito di ristrutturazione aziendale che aveva comportato la soppressione delle mansioni di pittore (Cass. civ., Sez. lavoro, 09/03/2004, n. 4790);
- la Suprema Corte ha ritenuto che il trasferimento di un direttore delle Poste Italiane in un ufficio di minore importanza, per qualità e volume dell'attività svolta, rispetto all'ufficio di provenienza, fosse lesivo del principio della equivalenza delle funzioni, a nulla rilevando, in senso contrario, che la retribuzione e la qualifica fossero rimaste invariate (Cass. civ., sez. lavoro, 05/08/2014, n. 17624);
- la Suprema Corte ha ritenuto legittimo lo spostamento di un giornalista redattore dal settore politica e cronaca italiana a quello della cronaca locale, non risultando che la diversa attività fosse incoerente con il patrimonio professionale del ricorrente e tale da integrare una dequalificazione suscettibile di risarcimento (Cass. civ., sez. lavoro, 06/05/2015, n. 9119).
[1] Applicando il suddetto principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del demansionamento, avendo accertato che le mansioni cui era addetto in precedenza il dipendente, addetto alla conduzione di un complesso impianto di verniciatura, erano di gran lunga più impegnative e responsabilizzanti delle successive mansioni di addetto ala linea sigillatura, proprie dell'operaio generico di catena di montaggio (Cass. civ., Sez. lavoro, 12/01/2006, n. 425); la Suprema Corte ha applicato ciò alla seguente fattispecie in cui il lavoratore, dapprima titolare di una filiale secondaria di un istituto di credito, era stato assegnato all'ufficio cassa titoli e cedole della sede centrale, poi al servizio ispettorato, quindi a capo dell'ufficio segreteria fidi, ufficio rischi e ufficio cassa centrale; infine, in seguito all'unificazione della Cassa Centrale di Cuneo e di quella di Milano, assegnato presso la filiale di Cuneo e successivamente presso quella di Boves, con mansioni di direttore, in sostituzione del titolare (Cass. civ., Sez. lavoro, 02/05/2006, n. 10091); la Suprema Corte ha cassato la decisione della corte territoriale che, pur affermando la necessità di verificare se la destinazione di un medico al servizio accettazione di un ospedale avesse comportato una perdita di professionalità comunque acquisita, in precedenza, in relazione all'attività svolta come aiuto, aveva incentrato la motivazione esclusivamente sulle nuove mansioni, in tal modo omettendo di verificare i contenuti concreti delle mansioni precedenti e la relativa professionalità acquisita dal professionista, mancando quindi di confrontare, sul piano dell'equivalenza, detti contenuti con quelli delle nuove mansioni (Cass. civ., Sez. lavoro, 08/06/2009, n. 13173); la Suprema Corte ha escluso che l'attribuzione della qualifica ottava apicale a dipendenti di ente comunale - conseguente alla nuova classificazione introdotta dalla contrattazione collettiva - costituisse una implicita assegnazione della qualifica dirigenziale, ovvero che quest'ultima si configurasse come un fatto automatico vincolante per il comune nell'ambito dei suoi poteri organizzativi, stante l'accertamento in fatto, compiuto dai giudici di merito, della conservazione delle precedenti mansioni (Cass. civ., Sez. lavoro, 08/03/2011, n. 5452).
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