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LA TUTELA PREVIDENZIALE DEL LAVORATORE QUANDO MANCANO I VERSAMENTI DEI CONTRIBUTI

La tutela previdenziale del lavoratore quando mancano i versamenti dei contributi

La Corte di Cassazione torna con la sentenza n.2164 /2021 sul principio di automaticità delle prestazioni quando l'imprenditore non versa i contributi e i rimedi esperibili

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Il diritto dei lavoratori alla tutela previdenziale è un principio di rango costituzionale previsto dall’art. 38, comma 2, della Costituzione secondo cui “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

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1) Il principio di automaticità delle prestazioni

I redattori del Codice civile italiano, che come è noto è del 1942 e pertanto anteriore alla Costituzione, si erano peraltro preoccupati d’introdurre nell’ordinamento il principio di automaticità delle prestazioni all’art. 2116 c.c., comma 1, secondo cui “le prestazioni indicate nell'art. 2114 sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali o delle norme corporative”. 

Il principio di automaticità delle prestazioni, quindi, garantisce al lavoratore il diritto a pensione, qualora il datore di lavoro non abbia versato i contributi dovuti.

L’ordinamento italiano, tuttavia, accoglie un principio di automaticità delle prestazioni attenuato, in quanto l’art. 40 della l. 30 aprile 1969, n. 153, prevede che: “il requisito di contribuzione stabilito per il diritto alle prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti, si intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale[1]. Quindi, il principio di automaticità delle prestazioni opera solamente ove i contributi non siano prescritti nell’ambito della prescrizione quinquennale.

Si noti che, sulla base dell’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n.335, vige la cosiddetta irricevibilità dei contributi prescritti: dopo che i contributi sono prescritti il lavoratore subordinato o autonomo non potrà versare volontariamente i contributi all’INPS al fine di poter maturare il diritto a pensione[2]. La circolare del 13 ottobre 1995, n. 262 precisa, a questo riguardo, che “l'Istituto, quindi, non può accettare il versamento di tale contribuzione prescritta ma anzi, qualora questo venga comunque effettuato, deve provvedere d'ufficio al suo rimborso”. 

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[1] Attualmente la prescrizione dei contributi è quinquennale e non più decennale (la legge citata legge 153 del 1969 non è stata aggiornata al nuovo termine prescrizionale). La norma di riferimento sulla prescrizione è, infatti, l’art. 3, comma 9, della l. 8 agosto 1995, n. 335, secondo cui “le contribuzioni  di   previdenza  e  di    assistenza  sociale obbligatoria si prescrivono e  non  possono   essere  versate  con  il decorso dei termini di seguito indicati: a) dieci anni  per   le  contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie, compreso il contributo di solidarietà previsto dall'articolo 9-bis, comma 2, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 giugno 1991, n. 166, ed esclusa ogni aliquota di  contribuzione  aggiuntiva   non devoluta alle gestioni pensionistiche. A decorrere dal 1 gennaio 1996 tale termine è ridotto a cinque anni salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti; b) cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria”.

[2] La ratio del principio di irricevibilità dei contributi prescritti è legata all’esigenza di salvaguardare la tenuta finanziaria del sistema previdenziale al fine di permettere agli enti previdenziali una pianificazione finanziaria basata su dati certi e non passibili di cambiamento a seguito del versamento di contributi prescritti.

2) La sentenza della Corte di Cassazione 2164/2021

La Corte di Cassazione è intervenuta su tali questioni con la sentenza del 1 febbraio 2021, n. 2164, che si segnala per la pregevole e dotta ricostruzione che i giudici del Supremo Collegio effettuano in ordine ai rimedi a disposizione del lavoratore per tutelare il proprio diritto all’assistenza pensionistica.

Il caso nasce da un ricorso dell’INPS, giudicato fondato dalla Corte di Cassazione, contro una pronuncia della Corte di Appello di Genova, la quale aveva accolto l’impugnazione proposta da una lavoratrice avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dalla lavoratrice stessa nei confronti dell’INPS al fine di ottenere dall’Istituto la regolarizzazione della propria posizione assicurativa con accredito dei contributi omessi dalla datrice di lavoro.

Sulla base della citata sentenza 2164, si delineano di seguito i rimedi esperibili dal lavoratore per tutelare il proprio diritto all’assicurazione pensionistica. Se i contributi non sono stati versati e non sono prescritti nell’ambito della prescrizione quinquennale, il lavoratore può, in primo luogo, comunicare all’INPS tale circostanza (cioè che il datore di lavoro non ha versato dei contributi dovuti ma non ancora prescritti) in modo tale che l’Istituto si attivi al fine di recuperarli dal datore di lavoro; il lavoratore, inoltre, in tal caso, potrà agire in giudizio contro il datore di lavoro al fine di ottenere la “condanna del datore di lavoro al pagamento della contribuzione non prescritta ed in tal caso va chiamato necessariamente in giudizio anche l'Ente previdenziale in quanto unico legittimato attivo nell'obbligazione contributiva (Cass. n. 19398 del 2014; Cass. n. 8956 del 2020)”[1].

La citata sentenza 2164 specifica che “il lavoratore non è legittimato ad agire nei confronti dell'Istituto previdenziale per accertare l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, né può chiedere di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi[2] in quanto l’obbligazione contributiva[3] ha come soggetto attivo l’ente previdenziale e come soggetto passivo il datore di lavoro, debitore dei contributi[4]. Quindi, nel caso di mancato versamento di contributi dovuti e non prescritti, il lavoratore non potrà convenire in giudizio direttamente l’INPS affinché il giudice pronunci una sentenza di condanna dell’Istituto a regolarizzare il proprio “diritto alla pensione”. 

Nel caso in cui sia intervenuta la prescrizione quinquennale e, pertanto, non possa essere richiesta all’INPS la regolarizzazione della posizione assicurativa, sarà azionabile il particolare rimedio previsto dall’articolo 13 della l. 12 agosto 1926, n. 1138, secondo cui “ferme  restando  le   disposizioni  penali,  il datore di lavoro che abbia  omesso   di versare contributi per l'assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta   prescrizione   ai  sensi  dell'articolo   55  del  regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, può chiedere all'Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire, nei casi previsti dal  successivo quarto comma, una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell'assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi”. Quindi, nel caso di mancato versamento di contributi dovuti ma ormai prescritti, l’ordinamento tutela il lavoratore con l’istituto della rendita vitalizia

La citata sentenza 2164, richiamando la sentenza della Corte di Cassazione del 18 marzo 2010, n. 6569, precisa che la facoltà di richiedere la costituzione della rendita vitalizia “spetta innanzi tutto al datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l'assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione”[5] e, in secondo luogo, “analoga facoltà è altresì attribuita al lavoratore, in sostituzione del datore di lavoro, quando non possa ottenere da quest'ultimo la costituzione dell'anzidetta rendita”[6].

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[1] Corte Cass. 1 febbraio 2021, n. 2164.

[2] Ibidem.

[3] Sull’obbligo contributivo, ci si permette di rinviare a R. Sarra, Il Contenzioso Contributivo con l’INPS, pag. 9 ss., Maggioli, 2021, di cui chi scrive è co-autore. 

[4] La citata sentenza 2164 dottamente precisa che “l'obbligazione contributiva ha quale soggetto attivo l'ente assicuratore e quale soggetto passivo il datore di lavoro, debitore dei contributi nella parte maggiore (ex art. 2115 c.c.), ovvero nell'intero ( ex art. 23 I. n. 218 del 1952 in caso di pagamento tardivo o parziale)”.

[5] Corte Cass. 1 febbraio 2021, n. 2164.

[6] Ibidem.

3) Altri chiarimenti forniti dalla Corte

La sentenza 2164, infine, precisa che, ex art. 2116, secondo comma, c.c. il lavoratore, nel caso di prescrizione del credito contributivo, potrà, comunque, agire contro il datore di lavoro per il risarcimento del danno “poichè tale situazione determina l'attualizzarsi per il lavoratore del danno patrimoniale risarcibile, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante (Cass. n. 3790 del 1988; n. 27660 del 2018)”[1].

La Corte di Cassazione, infine, esamina i principi di diritto contenuti in due precedenti pronunce, giudicandoli inconferenti per il caso di specie. In primo luogo, la Corte di Cassazione esamina la pronuncia 21 maggio 2002, n. 7459, che aveva riconosciuto il diritto del lavoratore a ottenere la regolarizzazione assicurativa direttamente da parte dell’INPS, in un caso in cui l’Istituto era stato tempestivamente informato dal lavoratore del mancato pagamento dei contributi da parte del datore di lavoro ma era rimasto inerte, “lasciando, anzi, trascorrere, il termine di prescrizione e perché a tale inottemperanza, l'assicurato, alla stregua di un accertamento di fatto, operato dal Giudice del merito, non aveva potuto e neppure avrebbe potuto in futuro sopperire ricorrendo ai rimedi apprestati dal legislatore nei casi di suddetti inadempimenti datoriali”[2]: infatti al lavoratore, nella fattispecie esaminata dalla citata sentenza 7459, era “precluso ricorrere alla costituzione della rendita ex art. 13 legge n. 1338 del 1962 o all'azione di risarcimento danni ex art. 2116, secondo comma, c.c.”[3].

In secondo luogo, la citata sentenza 2164 giudica non pertinente il richiamo del resistente alla sentenza 20 aprile 2002, n. 5767, secondo cui è configurabile il diritto alla regolarizzazione previdenziale, nel caso di contributi previdenziali non effettivamente versati ma dovuti nell’ambito della prescrizione, ove il pregiudizio specifico alla posizione assicurativa del lavoratore sia determinato, oltre che dall’inadempimento datoriale, anche dal diniego opposto dall’INPS a rendere operativo l’istituto della ricongiunzione. 

In definitiva, a parte le particolari ipotesi esaminate dalle citate sentenze della Corte di Cassazione n. 7459 e n. 5767, nel caso di mancato versamento di contributi dovuti dal datore di lavoro ma ormai prescritti, il lavoratore non potrà agire direttamente in giudizio nei confronti dell’INPS per far condannare l’Istituto a regolarizzare la propria posizione assicurativa ma potrà solamente richiedere allo stesso (in sostituzione del datore di lavoro) la costituzione di una rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 della citata legge 1338, salvo sempre la possibilità di agire per il risarcimento del danno nei confronti della parte datoriale. 

[1] Ibidem.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

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