vedi l'art. 1746 cc
"Art. 1746 - Obblighi dell'agente
Testo in vigore dal 2 febbraio 2000
Testo risultante dopo le modifiche apportate dall'art. 28, legge 21 dicembre 1999, n. 526
1. Nell'esecuzione dell'incarico l'agente deve tutelare gli interessi del preponente e agire con lealtà e buona fede. In particolare, deve adempiere l'incarico affidatogli in conformità delle istruzioni ricevute e fornire al preponente le informazioni riguardanti le condizioni del mercato nella zona assegnatagli, e ogni altra informazione utile per valutare la convenienza dei singoli affari. E' nullo ogni patto contrario (comma così sostituito dall'art. 2, comma 1, D.Lgs. 15 febbraio 1999, n. 65) .
2. Egli deve altresì osservare gli obblighi che incombono al commissionario [ 1731 ss. ] ad eccezione di quelli di cui all' articolo 1736 [1-2], in quanto non siano esclusi dalla natura del contratto di agenzia.
3. E' vietato il patto che ponga a carico dell'agente una responsabilità, anche solo parziale, per l'inadempimento del terzo. E' però consentito eccezionalmente alle parti di concordare di volta in volta la concessione di una apposita garanzia da parte dell'agente, purché ciò avvenga con riferimento a singoli affari, di particolare natura ed importo, individualmente determinati; l'obbligo di garanzia assunto dall'agente non sia di ammontare più elevato della provvigione che per quell'affare l'agente medesimo avrebbe diritto a percepire; sia previsto per l'agente un apposito corrispettivo (comma aggiunto [2] dall'art. 28, comma 2, legge 21 dicembre 1999, n. 526) .
ok, leggi cmq anche questo
"CAMERA CIVILE DEGLI AVVOCATI DI PADOVA
CENTRO STUDI "DOMENICO NAPOLETANO" - Sezione Veneta
UNIVERSITA' DI PADOVA - FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA
CONVEGNO
"IL CONTRATTO DI AGENZIA DOPO I NUOVI
ACCORDI ECONOMICI COLLETTIVI"
PADOVA, 28 MARZO 2003
RELAZIONE DI FRANCESCO ROSSI
"ABROGAZIONE DELLO STAR DEL CREDERE E
TECNICHE DI TUTELA RISPETTO ALLE INSOLVENZE"
E’ noto come l’art. 28 della legge 21 dicembre 1999 n. 526 abbia, modificando l’art. 1746 c.c., “vietato il patto che ponga a carico dell’agente una responsabilità anche solo parziale per l’inadempimento del terzo”. La legge ha, quindi, vietato che nell’ambito dei contratti di agenzia venissero inserite le clausole relative allo star del credere in forza delle quali l’agente era tenuto, entro limiti determinati, a rifondere al preponente il mancato guadagno a questi derivato dal mancato pagamento del terzo con cui l’agente stesso avesse promosso la conclusione dell’affare; clausole, queste con le quali, veniva trasferito in capo all’agente una parte del rischio gravante sul preponente relativo all’insolvenza del terzo contraente.
1. - Anche se la norma che vieta il patto dello star del credere è contenuta nella legge comunitaria del 1999, l’iniziativa del legislatore non ha nulla a che vedere con l’adempimento degli obblighi di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario; la direttiva n.86/653 che si occupa del contratto di agenzia nulla dispone in ordine allo star del credere, per cui la necessità di vietare tale pattuizione non discendeva certo dal diritto comunitario (1). Al contrario, lo star del credere è istituto antico e largamente diffuso a livello internazionale, quindi anche nell’ambito comunitario, con due differenti regolamentazioni, tendenti entrambi a tutelare l’agente rispetto ad una eccessiva esposizione al rischio per l’insolvenza del terzo, rischio che “naturalmente” deve gravare sul proponente. Secondo una delle impostazioni prescelte, si prevede in capo all’agente l’obbligo di prestare una vera e propria garanzia per l’adempimento del terzo, nel senso che l’agente sarà tenuto a coprire interamente il pregiudizio subito dalla casa mandante per l’inadempimento del terzo, ma si vuole, in tale ipotesi, che l’obbligo in capo all’agente sia pattuito di volta in volta e con riferimento ad affari determinati; seguendo altra impostazione si prevede un obbligo generale in capo all’agente di tenere indenne il preponente ma con la previsione di un limite assai modesto entro il quale l’agente stesso sarà tenuto a rispondere dell’insolvenza del terzo. Si tratta di sistemi ispirati a finalità diverse: in un caso si vuole garantire effettivamente ed integralmente il preponente rispetto ad un affare rischioso in ordine al quale l’agente assume interamente su di sé il rischio dell’insolvenza, nell’altro, poiché la garanzia che viene posta a carico dell’agente, e quindi l’effettiva utilità per il preponente con riguardo al singolo affare, è comunque di modesta entità, si vuole stimolare l’agente ad essere attento e selettivo nella scelta dei clienti (2).
2. - Prima della modifica introdotta dalla legge n. 526/1999 il nostro ordinamento, con riferimento al contratto di agenzia, aveva optato per la seconda delle due soluzioni.
E’ noto come la disciplina dello star del credere sia prevista nel nostro ordinamento, dal punto di vista normativo, solo nell’ambito delle disposizioni relative al contratto di commissione, dove, in relazione alla particolare natura di quel contratto – in sostanza un mandato ad acquistare o a vendere beni in nome proprio del commissionario ma per contro del committente – può prevedersi, verso uno specifico compenso, la responsabilità del commissionario per l’esecuzione dell’affare. Per quanto attiene il contratto di agenzia, la regolamentazione della clausola era contenuta in accordi economici risalenti nel tempo ma, con efficacia erga omnes, negli accordi recepiti nei D.P.R. n. 145 del 1961 e n. 1842 del 1960; in quegli accordi, applicabili, appunto, a prescindere dal loro richiamo nella disciplina contrattuale individuale o dall’iscrizione delle parti alle organizzazioni stipulanti, veniva fissata nel 20% della perdita subita la misura massima entro cui l’agente avrebbe potuto essere chiamato a rispondere per l’inadempimento del terzo. Gli accordi economici di diritto comune successivi abbassarono ulteriormente il limite entro il quale l’agente sarebbe stato chiamato a rispondere, prevedendo che non potesse superare il triplo della provvigione o il 15% della perdita complessiva.
L’art. 28 della l. n. 526 del 1999 che ha, come si è detto, vietato la possibilità di porre a carico dell’agente una responsabilità anche parziale per l’inadempimento del terzo, ha, tuttavia, previsto alcune deroghe a tale generalizzato divieto, ma si tratta di deroghe così restrittive da renderle nella sostanza inutilizzabili. Si deve trattare, infatti, di accordi “eccezionali”, con cui le parti, di volta in volta, prevedono la prestazione da parte dell’agente di un’apposita garanzia con riferimento a singoli e determinati affari; l’obbligo dell’agente non deve superare la provvigione che gli spetta per quegli affari ed a suo favore deve essere previsto un’apposito corrispettivo. Si comprende agevolmente come la previsione non soddisfi alcuna delle esigenze per le quali viene pattuito lo star del credere: non soddisfa l’esigenza del preponente di avere una effettiva garanzia per un singolo e determinato affare, visto che la responsabilità dell’agente non può superare la provvigione che gli spetterebbe in relazione a quell’affare; non soddisfa neppure l’esigenza di stimolare l’agente ad essere attento e diligente nella scelta dei clienti, in quanto la pattuizione deve riguardare singoli e specifici affari esattamente determinati. Non mi consta, infatti, che tale disposizione derogatoria rispetto al generale divieto abbia avuto una qualche applicazione: a riguardo vi è solo da sottolineare come il fatto che la pattuizione debba riguardare affari determinati non esclude che le parti, nell’ambito del contratto di agenzia, prevedano delle regole generali – in ordine, per esempio, alla tipologia ed entità degli affari che potranno essere oggetto della pattuizione, al limite della responsabilità dell’agente, all’entità del corrispettivo – da applicare poi per le pattuizione relative ai singoli affari (3).
3. - Ciò detto in relazione al contenuto della norma che ha nella sostanza abrogato la possibilità di pattuire lo star del credere nell’ambito del rapporto di agenzia si tratta ora di vedere quale sia la sua efficacia nel tempo, visto che non è prevista alcuna disciplina transitoria.
Essendo trascorsi ormai tre anni dall’entrata in vigore della norma e, pertanto, molti dei problemi relativi alla disciplina transitoria sono ormai di fatto superati, vorrei dire subito come non mi sembri così scontata l’interpretazione secondo cui, dopo l’entrata in vigore della legge n. 526 del 1999, anche le clausole contenute nei contratti conclusi precedentemente all’entrata in vigore della nuova normativa dovrebbero ritenersi affette da nullità o comunque debbano considerarsi inapplicabili con riferimento ad affari conclusi successivamente. Sul punto deve tenersi presente che la nuova disciplina è certamente priva di efficacia retroattiva e certamente non ha funzione interpretativa di una norma previgente. I patti, quindi, stipulati precedentemente erano, ovviamente, pienamente validi al tempo della loro conclusione e non vi è ragione perché tale validità originaria non continui a produrre effetti anche successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina. Se, come affermato costantemente dalla giurisprudenza, anche della Corte Costituzionale, il giudizio di validità di un atto deve essere condotto alla stregua delle norme vigenti al momento in cui quell’atto è stato posto in essere, non si vede per quale ragione quell’atto valido non debba continuare a produrre i suoi effetti anche successivamente alla modifica delle norme che regolano la sua validità; opinare diversamente significa attribuire alla norma successiva un’efficacia retroattiva, un’efficacia retroattiva che nella fattispecie certamente non vi è.
E’ noto come, a questo riguardo, vennero subito evidenziate le analogie della fattispecie in esame con quella relativa alle fideiussioni omnibus ed alla portata della l. n. 154/1992 che ha imposto il limite di valore nelle fideiussioni. Si ricordò, sul punto, l’intervento della Corte Costituzionale, al cui orientamento si adeguò successivamente anche la Corte di Cassazione, che affermò come, ferma la validità delle fideiussioni omnibus stipulate precedentemente all’entrata in vigore della l. n. 154/1992, queste non potessero produrre effetti per obbligazioni sorte successivamente alla nuova disciplina. Come è stato tuttavia autorevolmente osservato, quella della Corte Costituzionale, fu una sentenza, interpretativa di rigetto, che certo risentiva delle pesanti conseguenze che avevano per i consumatori le fideiussioni del tipo omnibus (4). Quella sentenza, infatti, pur ribadendo il principio che la validità degli atti e dei negozi deve essere valutata con riferimento alle leggi vigenti nel tempo in cui questi sono venuti in essere, finiva per contraddirlo, affermando che quegli atti, validi, non potevano essere più efficaci. La questione si è riproposta, alcuni anni dopo, con riferimento agli interessi usurari: anche qui la Corte di Cassazione, proprio richiamando l’intervento della Corte Costituzionale in tema di fideiussioni omnibus, aveva affermato che il tasso usurario o meno deve valutarsi con riferimento al momento in cui gli interessi devono essere pagati, non con riguardo al momento in cui veniva concluso il contratto di mutuo; ma quell’orientamento è stato disatteso dall’intervento interpretativo del legislatore che, con il d.l. n. 394/2000, ha riaffermato la necessità che il tasso usurario o meno sia valutato con riferimento al momento in cui gli interessi sono convenuti.
Ribadisco, quindi, come mi sembri tutt’altro che scontata la perdita di efficacia delle vecchie pattuizioni relative allo star del credere, sulle quali ovviamente le parti non siano nel frattempo intervenute con pattuizioni novative. A riguardo ed a corollario, si consideri, inoltre, come la eventuale perdita di efficacia della pattuizioni dello star del credere comporti la necessità di ridiscutere il contratto di agenzia o almeno l’ammontare della provvigione in tutte quelle situazioni in cui, in relazione alla garanzia prestata dall’agente, era prevista una forma di corrispettivo, vuoi specificamente individuato (il che non farebbe sorgere particolari problemi, visto che venuto meno lo star del credere verrebbe meno anche il relativo compenso provvisionale), vuoi incluso nel generale compenso spettante all’agente, con la necessità, in questo caso, di giungere ad un’equa riduzione del compenso stesso, certo di non facile determinazione. Senza contare poi che, in relazione alla particolarità del contratto – si pensi per esempio ad un contratto in cui il preponente non è in alcun modo in grado di filtrare le proposte contrattuali inoltrate dall’agente o di operare qualsivoglia valutazione sulla solvibilità dei clienti – ed alla volontà espressa dalle parti sull’essenzialità di tale previsione, potrebbe giungersi alla dichiarazione di nullità dell’intero contratto, in relazione alla sopravvenuta nullità parziale. (5)
Tali considerazioni, dunque, fanno propendere per l’opinione che considera tuttora efficaci le clausole relative alla star del credere contenute in contratti stipulati anteriormente alla riforma del 1999 e ciò anche con riferimento ad affari procurati dall’agente successivamente a tale nuovo dettato normativo.
Peraltro, anche a prescindere dalle considerazioni che precedono e per quanto possa ancora valere, sottolineo come mi sembri assolutamente condivisibile l’orientamento secondo cui, in ogni caso, per gli affari già conclusi al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, la garanzia dello star del credere, ove prevista, opererà; si potrà discutere se ai fini di tale operatività sia sufficiente che l’affare sia stato concluso o se debba essere intervenuto anche l’inadempimento del terzo prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina; propenderei, per la prima soluzione, maggiormente idonea a salvaguardare l’affidamento del preponente che, nel momento in cui conclude il contratto, sapeva di poter contare sulla clausola di star del credere.
4. - Accertato, dunque, che la nuova disciplina ha nella sostanza vietato, quantomeno per il futuro, ogni forma di pattuizione relativa alla star del credere in capo all’agente, poiché, come si è anche sopra ricordato, la funzione dello star del credere nel nostro ordinamento era quella di stimolare l’agente ad operare con attenzione nella scelta dei clienti e costituire in tal modo una forma parziale ed indiretta di garanzia per il preponente, vi è da chiedersi quali siano oggi gli strumenti per raggiungere tale obiettivo, certamente meritevole di tutela. Come vedremo gli strumenti sono molteplici, ma nella loro applicazione dovrà sempre tenersi presente che l’adozione dei medesimi non può mai risolversi con l’addossare, neppure parzialmente, all’agente la responsabilità per l’inadempimento del terzo, poiché questo confliggerebbe con il letterale inequivoco disposto della l. n. 526/1999.
Va detto, anzitutto, come la circostanza che l’agente non possa più essere tenuto allo star del credere non significa che egli sia libero di proporre alla casa mandante ogni tipo di affare e cliente: il primo comma dell’1746 c.c. stabiliva e stabilisce, infatti, - e la disposizione è stata ribadita anche nei recenti A.E.C. - che l’agente debba tutelare gli interessi del preponente ed agire con lealtà e correttezza, informandolo di tutte le circostanze significative al fine di valutare la convenienza dell’affare. Indubbio che fra le circostanze rilevanti che l’agente deve valutare e segnalare al fine di adempiere agli obblighi impostigli vi sia anche quella relativa alla solvibilità dei clienti.
Ciò detto, peraltro, deve, tuttavia, subito evidenziarsi come dalla semplice circostanza che il terzo non abbia adempiuto l’obbligazione contratta non potrà trarsi l’automatica conseguenza che l’agente sia stato inadempiente ai suoi obblighi. Solo con lo star del credere, infatti – ed era proprio questa la particolarità ed il vantaggio della pattuizione – l’agente era tenuto a rispondere sulla base del semplice inadempimento del terzo a prescindere da qualsiasi valutazione sulla sua negligenza o comunque sul suo inadempimento; anzi, come ha avuto modo di ribadire la Corte di Cassazione in una nota sentenza, anche nel caso in cui l’agente dimostri di avere usato la massima diligenza possibile non per questo era esonerato dalla responsabilità per lo star del credere. Diversamente – ed anche nel caso di assunta violazione degli obblighi sanciti dall’art. 1746 c.c. - sarà il preponente, secondo le regole generali, a dover provare l’inadempimento e la negligenza dell’agente.
Una volta provato l’inadempimento si tratta poi di comprendere se possa essere posto a carico dell’agente l’intero pregiudizio sofferto, ovvero il danno derivato dal mancato adempimento del terzo. La risposta dovrebbe essere senza dubbio positiva, così come affermato anche dalla Corte di Cassazione, seppur in una decisione non recentissima (6) (Cass. 6 marzo 1987 n. 2390), laddove, appunto, aveva ribadito che la previsione di una clausola di star del credere (allora vigente), non impedisce al preponente di esercitare, con le relative conseguenze risarcitorie, le normali azioni contrattuali; altre decisioni della S.C., che in apparenza potrebbero condurre a conclusioni diverse, si riferiscono in realtà a pattuizioni con le quali le parti, nel tentativo di eludere il limite fissato dagli A.E.C. alla responsabilità dell’agente per lo star del credere, gli avevano addossato, a prescindere da qualsiasi suo inadempimento, l’intera responsabilità per l’inadempimento del terzo (7).
Ma si ripete: ai fini della responsabilità per inadempimento degli obblighi sanciti dall’art. 1746, 1° comma, c.c. si dovrà sempre passare attraverso la dimostrazione della scarsa diligenza o peggio della colpa grave dell’agente, tenendo conto, sotto questo profilo, che non esiste, se non specificamente pattuito, un obbligo dell’agente di svolgere di svolgere indagini particolari in ordine alla solvibilità ed affidabilità dei clienti.
5. - Si tratta allora di vedere quali altri possano essere gli strumenti che il preponente può adottare per “stimolare” la diligenza dell’agente senza essere interamente gravato degli oneri probatori che gli derivano dalle generali azioni risarcitorie e senza tuttavia, nel contempo, incorrere nel divieto sancito dal nuovo testo dell’art. 1746 c.c. per cui non può essere addossata all’agente la responsabilità per l’inadempimento del terzo.
Come è stato da più parti osservato (8), sono certamente legittime quelle clausole che impegnano l’agente a contenere gli insoluti entro certi limiti, vuoi rapportati al numero di clienti complessivi, vuoi rapportati ad una percentuale del fatturato, facendo discendere dal mancato raggiungimento di tali obiettivi non una conseguenza risarcitoria rapportata agli inadempimenti dei clienti, ma, per esempio, una riduzione delle provvigioni, la mancata erogazione di premi o, forse anche una penale, non direttamente rapportata all’entità del pregiudizio sofferto dall’azienda in relazione agli inadempimenti, poiché diversamente la pattuizione sarebbe palesemente diretta ad eludere il divieto di cui si è detto.
Analogamente legittime – anche se, per quanto dirò, di utilità assai più ridotta rispetto a quanto si possa pensare - devono ritenersi quelle clausole che, in rapporto al mancato raggiungimento da parte dell’agente dell’obiettivo di contenere le insolvenze oltre un certo limite, prevedano la risoluzione del contratto a mezzo di una clausola risolutiva espressa o, prevedano che la circostanza costituisca comunque giusta causa di recesso da parte del preponente dal contratto. Dicevo che si tratta di clausole a mio avviso di limitata utilità. E’ vero che le parti, in forza delle disposizioni di cui all’art. 1453 e 1456 c.c., possono convenire che il contratto si risolva a seguito dell’inadempimento di una obbligazione determinata (in questo caso, abbiamo detto, il mancato contenimento nei limiti dati delle insolvenze) e che questo esonera il preponente da particolari oneri probatori in ordine all’inampimento stesso, alla sua rilevanza ed al suo carattere colposo, visto che la colpa si presume ai sensi dell’art. 1218 c.c.; ma, anzitutto, deve evidenziarsi come sia l’agente a poter dimostrare – e la prova per lui, che ha contattato direttamente i clienti, potrebbe non essere così diabolica - di aver usato tutta la diligenza richiesta o aver comunque adempiuto agli oneri di informazione e lealtà che gli derivavano dal contratto, con ciò vanificando la pretesa del preponente di vedere risolto il contratto.
Ma soprattutto, se è vero che la clausola risolutiva espressa consente, ove si verifichi l’inadempimento dedotto, di risolvere il contratto di agenzia, tale circostanza non porta necessariamente con sé l’esonero in capo al preponente stesso di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso e l’indennità per la risoluzione del rapporto di cui all’art. 1751 c.c.. E’ noto come in ordine alla risoluzione in tronco del rapporto, e quindi in ordine spettanza dell’indennità sostitutiva del preavviso, la giurisprudenza abbia sempre fatto applicazione analogica della nozione di giusta causa, dettata in tema di lavoro subordinato dall’art. 2119 c.c., pur affermando che la nozione stessa doveva poi essere calata nella specificità del rapporto di agenzia. Ora, tale convincimento è certamente rafforzato con riferimento all’indennità di risoluzione del rapporto dalla modifica introdotta dal d.leg.vo 303/1991, ove la nozione di giusta causa viene espressamente e letteralmente richiamata al fine di escludere la spettanza dell’indennità, con una disposizione che il legislatore sancisce espressamente come inderogabile, quantomeno a svantaggio dell’agente.
Orbene, sulla base di queste premesse, la valutazione in concreto della sussistenza della giusta causa al fine di escludere in capo all’agente la spettanza dell’indennità sostitutiva del preavviso e di quella per la risoluzione del rapporto è sempre e comunque riservata esclusivamente la giudice cui solo spetta di valutare se i fatti come accertati nella loro materialità sia sussumibili nell’ipotesi normativa, ovvero, nel caso, se possano o meno integrare una ragione che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto; e questo potere di valutazione è, se fosse necessario, ancora rafforzato dalla previsione dell’inderogabilità della norma, contenuta nel nuovo art. 1751 c.c.. Tale potere di valutazione – ed è questo il dato che mi pare rilevante – prescinde dalla valutazione che le parti abbiano fatto dell’inadempimento e della sua gravità al fine di consentire la risoluzione del rapporto da parte del preponente attraverso l’utilizzo della clausola risolutiva espressa; prescinde perché la nozione di inadempimento ai fini della giusta causa normativamente disciplinata può essere diversa di quella dedotta dalle parti quale ragione di attivazione della clausola risolutiva espressa o che abbiano convenzionalmente identificato come “giusta causa” al fine di concedere al preponente la facoltà di risoluzione in tronco. Si consideri, in questo senso, per evidenziare solo un aspetto, come ai fini di provare la sussistenza della giusta causa il preponente debba dedurre non solo l’inadempimento dell’agente come fatto in sé, ma anche evidenziare e provare la rilevanza di quell’inadempimento sotto il profilo soggettivo, al fine di rendere persuaso il giudice che la mancanza ha leso irreparabilmente il rapporto fiduciario. Vorrei ricordare, in questo senso, come nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato – a questo fine assolutamente assimilabile al rapporto di agenzia – la giurisprudenza abbia sempre affermato che la previsione da parte della contrattazione collettiva di specifica ipotesi di giusta causa di risoluzione del rapporto non toglie che il giudice debba valutare se quell’ipotesi integri o meno gli estremi della giusta causa come definita dall’art. 2119 c.c.. A conferma di queste argomentazioni mi pare paradigmatica la recente decisione della Suprema Corte n. 15661 del 12 dicembre 2001. In quella fattispecie l’agente aveva adito il giudice chiedendo il pagamento dell’indennità sostitutiva di preavviso e dell’indennità suppletiva di clientela, negategli dal preponente che aveva risolto il rapporto in relazione ad un vistoso calo degli ordini e di una diminuzione altrettanto sensibile delle visite ai clienti, circostanze queste emerse a seguito dell’istruttoria e rispetto alle quali l’agente aveva dedotto come quel calo degli ordini e delle visite ai clienti non fosse stato determinato da sua negligenza ma da una malattia del sub agente e che comunque quel calo fosse stato solo temporaneo nell’ambito di un rapporto protrattosi per molti anni. La Suprema Corte ha cassato la decisone del giudice di merito, che aveva respinto la domanda dell’agente, proprio rivendicando in capo al giudice il potere di valutare se l’inadempimento dedotto integri la nozione di giusta causa come definita dalla legge ed ora, ai fini del pagamento dell’indennità di risoluzione del rapporto dall’art. 1751 c.c. ed evidenziando altresì come, al fine di ritenere sussistente la giusta causa di risoluzione, come fatto idoneo ad interrompere definitivamente il rapporto fiduciario, non possa prescindersi dalla valutazione dell’elemento soggettivo e, quindi, delle ragioni che hanno portato l’agente ad assumere un certo contegno, ragioni che nella specie andavano ricercate nella malattia del sub agente e valutate avendo riguardo anche alla durata del rapporto.
Certo, la previsione delle parti che il verificarsi di un evento-inadempimento, nel nostro caso il mancato contenimento delle insolvenze entro limiti determinati, conduca alla risoluzione del rapporto, vuoi attraverso la clausola risolutiva espressa vuoi attraverso la qualificazione pattizia di quell’evento come integrante giusta causa di recesso di cui la casa mandante può avvalersi, costituisce per il giudice un criterio di riferimento, ma non si può pensare che questo assolva al preponente, attraverso gli automatismi contrattuali, dall’onere di allegare e provare le ragioni per le quali quell’inadempimento, da valutarsi anche sotto il profilo soggettivo, abbia leso definitivamente il rapporto fiduciario.
6. - Ritengo allora che, sempre al fine di stimolare l’agente a valutare attentamente i clienti con cui promuove gli affari, sia utile – al posto delle o accanto alle clausole risolutive legate al verificarsi di certi livelli di insolvenza – predeterminare in concreto i comportamenti “diligenti” che l’agente deve tenere, onde poi dedurre dalla violazione di quelle regole un inadempimento certo e grave anche sotto il profilo soggettivo. Penso, per esempio, alla previsione contenuta nel contratto secondo cui l’agente non debba proporre al preponente la conclusione di affari con clienti che già in passato si siano rivelati cattivi pagatori, debba verificare che il cliente non sia protestato, debba, per gli affari che superino un certo ammontare, effettuare visure alla camera di commercio ed alla conservatoria, inviando a riguardo una relazione alla casa mandante insieme alla trasmissione dell’ordine con un suo parere in ordine alla solvibilità. Se poi il cliente sarà insolvente ed alcune di queste procedure standardizzate non siano state rispettate sarà agevole dedurre l’inadempimento, la sua gravità anche sotto il profilo soggettivo e le conseguenze risarcitorie di carattere generale o che possano condurre alla risoluzione del rapporto. Con una valutazione, tuttavia, in ordine alla risoluzione che non può prescindere dalla valutazione di tutti gli elementi del caso concreto."