Speciale Pubblicato il 17/05/2021

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Enti religiosi e ASD: equiparazione per la perdita della non commercialità

di Moroni Avv. Francesca

Associazioni sportive dilettantistiche: perdita della qualifica di ente non commerciale. I parametri dettati dalla Cassazione



Con sentenza n. 526/2021 la Corte di Cassazione si pronuncia in merito a un ricorso presentato da un Ente religioso, ma richiama espressamente le Associazioni sportive dilettantistiche a cui estende l’applicazione dei parametri per determinare l’eventuale perdita di qualifica di ente non commerciale.

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La tassazione IRES per l’ente no profit

In materia di applicazione dell’IRES alle attività commerciali esercitate da un ente no profit (come, ad esempio, una ASD) la Corte richiama il D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), art. 73, comma 1, lett. c, dove si prevede che, oltre alle società e agli enti pubblici e privati che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, «sono soggetti all’imposta sul reddito delle società: (...) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, ... che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale».

La norma si collega poi al successivo art. 143, comma 1, in materia di reddito complessivo degli “enti non commerciali residenti”; nello specifico, tale reddito risulta formato «dai redditi fondiari, di capitale, d’impresa e diversi, ovunque prodotti e quale ne sia la destinazione, ad esclusione di quelli esenti dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva». Per i medesimi enti non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c. «rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione».

Inoltre, al comma 2, della medesima norma si dispone che «il reddito complessivo è determinato secondo le disposizioni dell’art. 8», e quindi sommando i redditi di ogni categoria che concorrono a formarlo e sottraendo le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e quelle derivanti dall’esercizio di arti e professioni. 

Il comma 3 del citato art. 143 TUIR, invece, indica i redditi che non possono essere presi in considerazione per il calcolo del reddito complessivo degli enti non commerciali, ossia: 

  1. i fondi pervenuti ai predetti enti a seguito di raccolte pubbliche effettuate occasionalmente, anche mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori, in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione;
  2. i contributi corrisposti da amministrazioni pubbliche ai predetti enti per lo svolgimento convenzionato o in regime di accreditamento... di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali degli enti stessi.

 

Di conseguenza, qualora gli enti, compresi quelli commerciali, come pure quelli dilettantistici, risultino qualificati come «non commerciali», non si può tenere conto, ai fini della determinazione del reddito complessivo dei «contributi corrisposti da Amministrazioni pubbliche ai detti enti», ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 143, comma 3, lett. b.

La perdita della qualifica di ente non commerciale

La qualifica di ente non commerciale può essere persa qualora «indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente […] eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta» (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 1).

Si chiariscono, poi, al comma 2 i parametri da considerare per la perdita della qualifica di ente non commerciale: 

  1. prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività; 
  2. prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti alle attività istituzionali; 
  3. prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative; 
  4. prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese.

 

Va comunque specificato che la disposizione non contiene presunzioni assolute di commercialità, ma traccia un percorso logico, anche se non vincolante quanto alle conclusioni, per la qualificazione dell’ente non commerciale, individuando parametri dei quali deve tenersi conto unitamente ad altri elementi di giudizio. 

Non è, pertanto, sufficiente il verificarsi di una o più delle condizioni stabilite dal citato art. 149, comma 2 del Tuir per poter ritenere avvenuto il mutamento di qualifica, ma sarà necessario, in ogni caso, un giudizio complesso, che tenga conto anche di ulteriori elementi, ivi comprese le caratteristiche complessive dell’ente, completamente trascurate dall’organo accertatore (Circ. Min. Finanze, n. 124 del 12 maggio 1998).

Occorre anche considerare il requisito temporale per cui, ai sensi del successivo comma 3 dell’art. 149 TUIR, «il mutamento di qualifica opera a partire dal periodo d’imposta in cui vengono meno le condizioni che legittimano le agevolazioni e comporta l’obbligo di comprendere tutti i beni facenti parte del patrimonio dell’ente nell’inventario di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 15».

L’articolo 149 al 4 comma, tuttavia, recita che «le disposizioni di cui ai commi uno e due non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche» 

In realtà, ribadiscono i giudici della sentenza in esame, che il predetto comma 4 detta solo la regola per cui non risulta sufficiente svolgere attività commerciale prevalente per un solo esercizio per perdere la qualifica di “ente non commerciale”, ma occorre che nel corso dei vari anni di attività, l’ente non commerciale (ASD, nel caso) abbia in realtà svolto in prevalenza attività commerciale. 

L’art. 149, comma 4 TUIR, quindi attiene solo al “singolo esercizio” di attività ed impedisce che l’ente in questione perda la qualifica di ente non commerciale qualora «lo “sforamento” dai parametri avvenga in un “singolo esercizio”, ma se tale “sforamento” avviene in più esercizi, allora, la natura di ente non commerciale può venire meno».

In tal modo il legislatore non ha inteso attribuire “in automatico” a tali enti la qualifica di enti non commerciali, dovendosi, comunque, applicare i criteri dell’art. 73 TUIR, sicché gli stessi enti sono qualificabili come non commerciali fintanto che il loro oggetto principale, almeno sotto il profilo qualitativo, continui ad essere costituito da un’attività non commerciale. 

A supporto di tale principio si rimanda anche alla decisione della Commissione Europea del 19 dicembre 2012, paragrafo 152 in cui si stabilisce come «l’art. 149 Tuir, comma 4, si limita a escludere l’applicazione di particolari parametri temporali e di commercialità di quell’art. 149, commi 1 e 2, agli enti ecclesiastici e alle associazioni sportive dilettantistiche, ma non esclude che tali enti possono perdere la qualifica di enti non commerciali». 

Al successivo paragrafo 158 della citata Decisione si aggiunge che «in realtà, tanto gli enti ecclesiastici quanto le associazioni sportive dilettantistiche possono perdere la qualifica di ente non commerciale se svolgono attività prevalentemente economiche. Pertanto, anche gli enti ecclesiastici e le associazioni sportive dilettantistiche possono perdere il beneficio del trattamento fiscale riservato agli enti non commerciali in genere. Non risulta pertanto sussistere quel sistema di qualifica permanente di ente non commerciale».

Conclusioni: la prevalenza della «sostanza» sulla «forma»

Tale sentenza si allinea con gli orientamenti giurisprudenziali per cui la non commercialità di un ente non può essere attribuita ope legis ma deriva dal fatto concreto che l’oggetto principale dell’attività istituzionale, almeno sotto il profilo qualitativo, continui ad essere costituito da un’attività non commerciale. 

Sulla stessa linea si era espressa, ad esempio, la Cassazione in materia di esenzione ICI/IMU a favore di enti non commerciali. 

La stessa esenzione risulta subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate, e di un requisito soggettivo, costituito dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.

In particolare, la sussistenza del requisito oggettivo deve essere accertata in concreto, verificando che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità commerciali. Inoltre, sul piano probatorio, è onere del soggetto che richiede l’applicazione dell’esenzione, dimostrare la sussistenza del requisito oggettivo (Corte di Cassazione, Sezione V Civile, sent. nn. 14225 e 14226, 20 maggio 2015 – dep. 8 luglio 2015).

Principi che ribadiscono dunque come la “sostanza” dell’attività concretamente svolta dall’ente sia prevalente rispetto alla forma giuridica attribuita allo stesso e indicata nello statuto o atto costitutivo.



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