Speciale Pubblicato il 03/05/2020

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La copertura delle perdite di esercizio alla luce del “decreto liquidità”.

di Dott. Arturo Gulinelli

Come trattare le perdite che riducono il capitale sociale sotto il minimo legale, dopo il decreto Liquidità



 In questo breve contributo cercheremo di analizzare la norma contenuta nel così detto decreto liquidità per quel che concerne la deroga alle ricapitalizzazioni per perdite subite nel periodo fino al 31 dicembre 2020. Affronteremo in particolare le perdite che riducono il capitale sotto il minimo legale, dato che queste perdite hanno una rilevanza economica e giuridica di maggior impatto sia per le imprese, che per il funzionamento del mercato in genere.

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La deroga prevista dal decreto Liquidità per le perdite sino al 31 dicembre 2020

L’articolo 6 del  Decreto Legge 8 aprile 2020 numero 23 pubblicato in G.U. serie generale numero 94 dell’8 aprile (c.d. decreto liquidità) prevede che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020 per le fattispecie verificatesi nel corso degli  esercizi  chiusi  entro  la  predetta  data  non  si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo,  2447,  2482-bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del Codice civile.”

La deroga all’applicazione delle norme sulla riduzione del capitale sociale non è nuova poiché analoghe disposizioni sono previste, ad esempio, nell’art. 182-sexies (in base al quale le regole sulla riduzione del capitale sociale  non si applicano dalla data del deposito della domanda per l'ammissione al concordato preventivo, anche a norma dell'articolo 161 sesto comma, della domanda per l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione di cui all'articolo 182-bis ovvero della proposta di accordo a norma del sesto comma dello stesso articolo e sino all'omologazione),  il cui tenore letterale è esattamente lo stesso di quella in esame.

Così pure il novello Codice della Crisi d’impresa, la cui entrata in vigore è stata rimandata al 1° settembre 2021, nell'ambito delle procedure di composizione assistita della crisi, di accordi di ristrutturazione e di concordato preventivo prevede disposizioni analoghe a quelle in commento.

Le norme contenute nel Codice civile oggetto dell’art. 6 hanno lo scopo di mantenere in esistenza il valore del capitale a tutela delle esigenze dei creditori e dei terzi che fanno affidamento sulla capacità di una società di poter assolvere puntualmente alle obbligazioni assunte, anche grazie all’uso di mezzi propri.

E’ bene intanto fornire una prima definizione aziendalistica di patrimonio netto, visto che le perdite di cui parliamo potrebbero ridurlo o azzerarlo: per dirla con i concetti di Gino Zappa, il patrimonio netto non è altro che la ricchezza della società; l’utile e la perdita costituiscono pertanto delle variazioni di patrimonio netto, aumentando o diminuendo la ricchezza dell’impresa.

Se al capitale iniziale sommiamo gli utili (e sottraiamo le perdite) e gli aumenti di capitale per rivalutazioni (attuabili in presenza di una prospettiva di mantenimento dell’equilibrio economico), possiamo comprendere di quanto si è incrementata questa ricchezza (vanno considerati anche gli effetti di variazioni del patrimonio netto a causa di rettifiche dovute ai principi contabili per rilevazioni di errori non contabilizzati in passato). Se a questo valore togliamo le distribuzioni di dividendi, avremo la ricchezza netta totale generata da un ente economico e rimasta a disposizione della società.

La perdita come elemento rilevatore della crisi di impresa

Il patrimonio netto assume quindi un valore di assoluto rilievo nelle misurazioni di performance in economia aziendale. Il codice della crisi di impresa, che entrerà in vigore il prossimo anno, prevede che il deficit patrimoniale (o meglio il patrimonio netto negativo) costituisca da solo, e forse su questo si potrebbe discutere a lungo, un elemento rilevatore della crisi di impresa.

Anche il principio ISA 570 mette il deficit patrimoniale al primo posto tra gli indicatori finanziari che possono far sorgere dubbi sulla continuità aziendale. Riguardo alla continuità aziendale si ricorda che l’articolo 7 del decreto liquidità stabilisce che “nella redazione del  bilancio  di  esercizio  in  corso  al  31 dicembre 2020, la valutazione  delle  voci  nella  prospettiva  della continuazione dell'attività di cui  all'articolo  2423-bis,  comma primo, n. 1), del codice  civile  può  comunque  essere  operata  se risulta sussistente nell'ultimo bilancio di esercizio chiuso in  data anteriore al 23 febbraio 2020,  fatta  salva  la  previsione  di  cui all'articolo 106 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. Il criterio di valutazione è specificamente illustrato nella nota  informativa anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente”.

Del resto, valendo l’uguaglianza “Attività – Passività = Patrimonio netto” è facile intuire che il patrimonio aziendale, cioè il valore dei beni dell’azienda (siano fissi o circolanti o liquidi), dedotte le passività che li hanno finanziati ci restituisce il valore accumulato nel tempo a titolo di ricchezza.

È opinione comune in dottrina (Di Sabato, Diritto delle Società, Milano, 2003) ed in giurisprudenza che perdita ai sensi degli art. 2446 e 2447 c.c. debba essere accertata al netto delle riserve (statutarie, facoltative e legali), così che prima la società deve assorbire le riserve e gli utili non distribuiti e solo successivamente può ridurre il capitale, nella misura pari alla perdita residua (Tribunale Roma, 20/02/2001).

La deroga posta dal decreto liquidità ha un intento nobile, ma è vaga nella sua estensione e applicabilità giuridica.

E del resto anche a livello giuridico le regole contenute negli articoli 2447 c.c. e 2482 ter sono espressione di un principio generale che è sotteso al buon funzionamento del mercato e che identifica il capitale netto come presidio per i creditori. Quindi se si perde il capitale, il rischio di impresa deve rimanere in capo all’imprenditore e non può traferirsi ai terzi (fornitori, dipendenti, erario, finanziatori etc.); l’imprenditore o ricapitalizza o scioglie la società (salvo trasformarla in una società di persone assumendo responsabilità personale per le obbligazioni sociali).

Questo principio è fondamentale e regola il buon andamento dell’economia nel suo complesso. Non si può continuare l’attività, a meno che la società ha capacità reddituali significative (vedi la ricapitalizzazione con gli utili provvisori in formazione o con gli utili al più tardi dell’esercizio successivo per le perdite che non azzerano il capitale) e/o i soci credono nella loro impresa e la ricapitalizzano.

Andare avanti nella gestione di impresa senza che accada nulla è, ed eccezion fatta per gli altri strumenti risolutivi della crisi di impresa, sostanzialmente impossibile ed errato.

Il decreto liquidità non precisa chi pagherà le conseguenze delle perdite

Riguardo alla non copertura delle perdite cosa accadrà? Che avremo una perdita che porta il patrimonio netto ad esempio ad avere un valore negativo senza limiti di tempo? Sarebbe impossibile, sia per il rispetto del principio della continuità aziendale, sia per evitare che il rischio di impresa si trasferisca dall’imprenditore agli stakeholders.

La deroga agli articoli 2447 e 2482-ter del Codice civile senza una precisazione specifica produce molti dubbi interpretativi e operativi. È esclusa l’obbligo di convocare senza indugio l’assemblea per ricapitalizzare la società? E fino a quando? L’interpretazione logico-sistematica sembrerebbe essere quella di differire all’esercizio successivo l’adozione degli opportuni provvedimenti, come avverrebbe per le perdite di oltre un terzo che non portano il capitale al di sotto del minimo legale. Ma cosa dovranno fare gli amministratori e gli organi di controllo e revisione?

Intanto, come confermato dalla relazione illustrativa al Decreto Legge n. 23, la deroga, pur sollevando gli amministratori dal rischio di una gestione non conservativa, non li esenta dagli obblighi previsti dal primo comma dell’art. 2446 c.c. (che infatti non viene menzionato nella deroga), il che comporta che la norma in esame solleva da responsabilità tali organi soltanto per l’assunzione delle misure ivi previste, ma non per l’omissione dell’informativa ai soci.

Giova ricordare che la giurisprudenza è pressoché unanime nel ritenere esistente la responsabilità degli amministratori di una società che fallisce quando nel redigere il bilancio questi commettono illegittime valutazioni in modo da non rappresentare la corretta situazione aziendale e la sua possibile continuazione, omettendo o non rilevando in questo modo perdite che avrebbero eroso il capitale della società.

La tutela dei creditori è evidente in questi passaggi, seppur riferiti a vicende societarie di altra natura e relativamente a circostanze diverse.

Una possibile interpretazione della deroga all'art. 2447 Cod. Civl.

La deroga all’articolo 2447 (e alla medesima previsione dell’articolo 2482-ter), ad avviso degli scriventi, dovrebbe intendersi applicabile al ricorrere di alcune condizioni, quali a titolo esemplificativo:

  1. individuare il nesso di causalità con l’evento dovuto alla pandemia mediante un’analisi esterna settoriale (alcune attività non sono state sottoposte a shock – ad esempio farmaceutico, alimentari e in parte logistica, trasporti e servizi finanziari e consulenziali) e un’analisi interna (confronto dell’andamento di ordini e vendite registrate nel 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019 e 2018); in questo modo si potranno distinguere le imprese cha hanno avuto perdite legate all’emergenza sanitaria da quelle che hanno avuto cattive performance per motivi differenti;
  2. la società nell’esercizio 2021 dimostra di avere capacità reddituali tali da poter conseguire rilevanti utili di esercizio (meglio se risultanti da un business plan approvato dagli amministratori) in grado di riassorbire il deficit patrimoniale;
  3. i soci intendono ricapitalizzare la società;
  4. esistono processi di riorganizzazione che porteranno la società ad una fusione che tra le tante finalità strategiche avrà anche l’effetto di aumentare la patrimonializzazione del soggetto nascente;
  5. i soci delibereranno una trasformazione regressiva;
  6. I soci avvieranno percorsi di risanamento aderendo ad istituti di deflazione della crisi di impresa, in grado di poter risanare l’impresa, magari cedendo attività non strategiche;
  7. la società venderà o conferirà un ramo di azienda trovando le risorse patrimoniali per poter ridurre la perdita.

Al di fuori di queste eventualità sembra difficile ipotizzare una sospensione dell’efficacia dei due articoli citati – 2447 e 2482 ter c.c. Una diversa interpretazione e operatività della norma potrebbe far configurare  una violazione delle norme sulla libera concorrenza, ponendo società con situazioni diverse sullo stesso piano (chi può risolvere il problema e recuperare la continuità aziendale e chi non ci riuscirà).

Le implicazioni giuridiche sono di assoluto rilievo anche per sindaci e revisori.

Si può attendere la conclusione dell’esercizio successivo senza avere conto delle implicazioni economiche e patrimoniali in cui la società potrebbe incorrere?

Il nostro parere è che sarà molto difficile trattare queste perdite di esercizio senza aprire una finestra di attenta analisi sull’andamento della gestione e sulle azioni intraprese dai soci e dal management per porre rimedio alla situazione generatasi.

Avrebbe avuto più senso accompagnare questa norma con la previsione di poter rivalutare - anche solo a fini civilistici - i beni materiali e quelli immateriali adeguando il valore di libro a quello reale di mercato (ove possibile e coerentemente con la possibilità di recuperare condizioni di redditività), facendo conseguire una automatica patrimonializzazione?



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