Re: e qui dove sta l'errore?
Cassazione, Sez. trib., Sent. 29 marzo 2006
(11 gennaio 2006), n. 7292 - Pres. Papa -
Rel. Scuffi
Svolgimento del processo
L'Ufficio II.DD. rettificava - ai fini IRPEG ed ILOR 1994 - il reddito di impresa della s.r.l. M. di C. & C. portandolo da una perdita di L. 32.841.000 ad un reddito di L. 51.563.000 e così recuperando a tassazione - per mancato riconoscimento
della relativa deduzione - l'importo di L.
88.171.704 costituito da interessi passivi di conto corrente sostenuti in dipendenza di finanziamento;
tanto sul rilievo che tali oneri non erano più afferenti all'attività svolta nell'esercizio 1994 (affitto di azienda) ma inerivano alla diversa attività esercitata nell'esercizio precedente (commercio e produzione di mobili).
Il ricorso proposto avverso l'avviso di
accertamento veniva rigettato dalla CTP di Cuneo con decisione confermata dalla CTR del Piemonte la quale disattendeva la tesi del contribuente sulla legittima detrazione degli oneri per interessi passivi a fronte
dello svolgimento di qualsiasi attività commerciale produttiva di reddito imponibile, dovendo essere sempre fatto riferimento al «concetto» di inerenza
quale correlazione tra costo e reddito prodotto ex D.P.R. n. 917/1986, art. 75, comma 5. In sostanza i giudici di appello - rilevata la diversità di attività esercitata nei due esercizi - assumevano
che la fattispecie di deducibilità degli interessi passivi era legittima se tali oneri risultavano sostenuti in presenza e per l'esercizio di quella prima attività di impresa e non quando essa risultava
esercitata da terzi (come nel caso di affitto di azienda). Ricorre per la cassazione della sentenza la s.r.l. M. assumendo - con primo motivo - che il
requisito dell'inerenza - valido per le spese deducibili - non poteva applicarsi agli interessi passivi che rappresentavano un costo solo astrattamente riconducibile ad uno specifico impiego in quanto oneri generati dalla funzione finanziaria ed assimilabili a costi generali dell'impresa che non potevano essere riferiti a particolari attività aziendali. Infatti
- a differenza degli altri componenti negativi del reddito - il D.P.R. n. 917/1986 (T.U.I.R.), art.
63, non poneva alcun limite alla deducibilità degli interessi passivi in funzione dell'evento cui erano
collegati o della natura dell'onere cui erano accessori.
Con secondo motivo - poi - denunzia omessa pronunzia sulla inapplicabilità delle sanzioni (D.Lgs. n. 546/1992, art. 8, e D.P.R. n. 600/1973, art. 55) ovvero - in subordine - sulla loro mancata rideterminazione in applicazione del principio del favor rei e del cumulo giuridico (D.Lgs. n. 472/1997,
artt. 3, 12 e 25) stante le obbiettive ragioni di incertezza sulla portata delle richiamate disposizioni e la possibilità - in ogni caso - di applicazione di unica sanzione per infedele dichiarazione, ai fini IRPEG ed ILOR - per tutti gli anni oggetto di contestazione.
Motivi della decisione
1. Premesso che il ricorso in oggetto risulta proposto nei confronti dell'Ufficio periferico di S. dell'Agenzia delle entrate, va preliminarmente osservato - rispondendosi alle richieste interlocutorie
del P.G. circa la individuazione ell'Ufficio legittimato a contraddire nel giudizio di cassazione dopo l'istituzione delle Agenzie fiscali (D.Lgs. 30
luglio 1999, n. 300) nei procedimenti introdotti -
come nel caso di specie - successivamente al 1° gennaio 2001 (essendo da tale data divenute operative le Agenzie a sensi del D.M. 28 dicembre 2000, art. 1) - che le Sezioni Unite hanno recentemente composto il contrasto sulla legittimazione
delle articolazioni periferiche al ricorso per cassazione (Cass., SS.UU., n. 3118/2006) (1).
Invero, attraverso una interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata della disciplina processualtributaria
(nel senso di restringere ai soli casi strettamente necessari le ipotesi di inammissibilità dei rimedi giurisdizionali allorché sia in gioco la tutela di diritti fondamentali: Corte cost. n. 189/2000 e Cass., SS.UU., n. 22601/2004) (2) la
regola secondo cui l'atto introduttivo del giudizio - per le Amministrazioni non patrocinate dall'Avvocatura dello Stato - va proposto e notificato direttamente
all'ente in persona del suo rappresentante
ai sensi dell'art. 144 c.p.c. (nella specie, l'Agenzia delle entrate in persona del suo direttore generale presso la sede centrale di Roma) va integrata
con la disciplina speciale contenuta nel
D.Lgs. n. 546/1992, artt. 10, 11, 12 attribuenti la capacità di stare in giudizio agli Uffici finanziari
che hanno emesso l'atto impugnato. Di conseguenza tale capacità va riconosciuta in modo concorrente ed alternativo - secondo un modello simile alla preposizione institoria (artt. 2203 e 2204 c.c.) - anche agli Uffici periferici dell'Agenzia, subentrati a quelli dei Dipartimenti) da considerare «organi» dell'ente che - al pari del direttore - ne hanno la rappresentanza in giudizio.
Soluzione, questa, che fa essenzialmente leva sulla natura impugnatoria (quanto all'introduzione del giudizio) del processo tributario in sintonia con il processo amministrativo dove parte necessaria del
giudizio è sempre l'organo che ha emesso l'atto impugnato (legge n. 1034/1971, art. 21) e che si discosta da quella assunta dalla giurisprudenza di legittimità nel sistema previgente all'assunzione di
operatività delle Agenzie fiscali, ritenendosi in allora che la legittimazione degli Uffici periferici si esaurisse con il giudizio innanzi alle Commissioni tributarie, riprendendo in vigore per il giudizio di Cassazione la disciplina ordinaria contenuta nel R.D. n. 1611/1933, art. 11 comportante l'esclusiva legittimazione del Ministero delle finanze (rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato) con conseguente inammissibilità del ricorso proposto da e/o nei confronti dell'Ufficio
finanziario periferico già parte nei precorsi gradi di merito. Impostazione codesta che non può - peraltro - automaticamente estendersi al regime attuale in quanto fondata su una realtà ordinamentale diversa da quella imposta dalla ricostruzione del sistema in base alla operatività delle suddette Agenzie.
Il ricorso proposto nei confronti dell'Ufficio periferico dell'Agenzia delle entrate va dunque ritenuto ammissibile.
2. Per passare al merito delle doglianze del contribuente, osserva la Corte che il primo motivo di ricorso è infondato dovendo pienamente condividersi la motivazione adottata al riguardo dai giudici di appello che prescinde dai princìpi richiamati
dalla società ricorrente in tema di deducibilità degli interessi; princìpi che non si attagliano al caso di specie, né fanno ravvisare il contrasto giurisprudenziale prospettato dal P.G. Infatti, è ben vero che questa Corte ha in altra occasione affermato (Cass. n. 14702/2001) (3) il diritto alla educibilità
tout court degli interessi passivi la quale trova esplicito fondamento nel D.P.R. n. 917/1986, art. 75, comma 5, norma generale in tema di inerenza, e non nell'art. 63 che attiene esclusivamente alla misura della deduzione secondo gli ivi prefissati
limiti quantitativi. È stato infatti argomentato - al- la luce della nuova formulazione della norma del
D.P.R. n. 917/1986, art. 75, comma 5, rispetto a quella corrispondente contenuta nel D.P.R. n. 597/1973, art. 74, secondo comma (stabilente che «i costi e gli oneri sono deducibili se ed in quanto
si riferiscono ad attività da cui derivano ricavi e proventi che concorrono a formare il reddito di impresa» senza previsione di alcuna eccezione per gli interessi passivi) - che la precisazione aggiunta
secondo cui «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi od altri proventi
che concorrono a formare il reddito» indica la chiara volontà legislativa di riconoscere un trattamento
differenziato per gli interessi passivi rispetto ai vari componenti negativi del reddito di impresa, nel senso che il diritto alla deducibilità va riconosciuto sempre, senza alcun giudizio sulla
inerenza, purché nei limiti quantitativi riconosciuti dall'art. 63 del T.U.I.R. Si può altresì convenire con la società ricorrente che gli interessi passivi
sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all'impresa nel suo essere e progredire e dunque non possono essere specificamente riferiti
ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo.
Né certo è che occorre sempre e comunque un
«collegamento» tra reddito imprenditoriale e componente negativo detraibile che non può rivolgersi ad un reddito «ontologicamente» diverso perché
estraneo alla stessa attività di impresa.
Come già statuito da questa stessa Corte in tema di spese (ma il principio è analogo e perfettamente applicabile al caso in esame) l'imprenditore che conceda in affitto l'unica azienda di sua pertinenza
perde la qualifica di imprenditore e - quindi - non può più avvalersi dei criteri di deducibilità rispetto ad un reddito riveniente dai canoni di affitto ell'azienda che - in difetto di qualsiasi atto di residuata gestione (nel caso pacificamente mancante posto che anche le rimanenze erano destinate all'acquisto
da parte dell'affittuario) non possono
considerarsi come conseguiti nell'esercizio dell'originaria impresa in quanto cessata con il subentro del terzo (Cass. n. 21584/2005) (4).
Correttamente, pertanto, la Commissione tributaria regionale ha ritenuto che - pur trattandosi di fatti fattispecie
di legittima deducibilità degli interessi ove sostenuti in presenza ed in funzione dell'esercizio dell'attività di impresa intesa quale organizzazione di uomini e mezzi - la ratio della disposizione era
destinata a venir meno allorché tale attività fosse a tutti gli effetti ...
già, peccato il ricorrente fosse una società
e non un imprenditore individuale
ma vaia vaia vaia..
buona serata