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Decesso imprenditore individuale

Si consideri il caso di decesso dell'imprenditore individuale seguito dalla continuazione dell'impresa da parte dei tre figli eredi i quali, senza il coniuge superstite, costituiscono una società di fatto.
Si chiede da quale periodo d'imposta ha efficacia la clausola del contratto sociale, stipulato in sede di regolarizzazione della società di fatto in società in accomandita semplice, che prevede una ripartizione degli utili diversa dalla percentuale di partecipazione al capitale sociale da parte dei soci.
 
Riferimento: Decesso imprenditore individuale

Si consideri il caso di decesso dell'imprenditore individuale seguito dalla continuazione dell'impresa da parte dei tre figli eredi i quali, senza il coniuge superstite, costituiscono una società di fatto.
Si chiede da quale periodo d'imposta ha efficacia la clausola del contratto sociale, stipulato in sede di regolarizzazione della società di fatto in società in accomandita semplice, che prevede una ripartizione degli utili diversa dalla percentuale di partecipazione al capitale sociale da parte dei soci.
Quando gli eredi continuano l'attività d'impresa dell'imprenditore deceduto, i beni aziendali diventano uno strumento per l'esercizio di una attività economica tendente al conseguimento di utili e la comunione ereditaria si "trasforma" in una società di fatto secondo la consistenza dell'azienda al momento di apertura della successione (cfr. C.T.C. 5.6.84 n. 6261 e Cass. 5.8.96 n. 7164. In tale senso, ha avuto modo di pronunciarsi anche l'Amministrazione finanziaria con la R.M. 19.9.79 n. 250452/E).
Perché la comunione si trasformi in società fra coeredi è necessario che costoro convengano esplicitamente o implicitamente di continuare, in nome e per conto comune, l'esercizio dell'impresa cui si riferisce l'azienda. Ove l'accordo al riguardo sia limitato solo ad alcuni coeredi, si hanno due distinte situazioni giuridiche: la comunione incidentale fra tutti i coeredi relativamente all'azienda come lasciata dal de cuius, cioè con gli elementi materiali e immateriali esistenti al momento dell'apertura della successione, e la società fra i soli coeredi che hanno convenuto di continuare in comune l'esercizio dell'impresa; società al cui patrimonio con i relativi eventuali incrementi restano affatto estranei i partecipanti alla comunione come tali (si veda Caringella S., Ciafradini L., Izzo F. "Codice civile annotato con la giurisprudenza", Simone, Milano, 2005, p. 2627; Cian G., Trabucchi A "Commentario breve al codice civile", Cedam, Padova, 2007, p. 2498 e Cass. 4.6.97 n. 4986).
Pertanto, nel caso di specie, il rapporto societario di fatto venutosi a creare a seguito della continuazione dell'attività d'impresa a partire dal marzo 2008 riguarda i soli figli del de cuius e non il coniuge superstite.
La società di fatto non costituisce una tipologia societaria a sé, ma rappresenta comunque una società in nome collettivo ovvero una società in accomandita semplice (a seconda degli accordi interni intervenuti tra i soci), che, però, contrariamente a quanto previsto dalla normativa civilistica (artt. 2249 e 2200 c.c.), non risulta costituita per atto scritto, né iscritta nel Registro delle imprese (così Del Federico L. "Morte dell'imprenditore e successione nella ditta individuale", Il fisco, 32, 2007, p. 4718). Di conseguenza, la successiva regolarizzazione della società di fatto avvenuta nell'ottobre 2008 mediante la costituzione della società in accomandita semplice rappresenta, in linea di principio, soltanto un atto volto a conferire alla preesistente realtà sociale una più agevole riconoscibilità interna ed esterna. L'atto di regolarizzazione, infatti, non pone in essere una nuova realtà economica o una modifica della stessa, ma evidenzia quella preesistente, avvicinandosi in ciò agli atti di natura cognitiva (in questo senso, si veda la C.M. 29.5.97 n. 147/E, § 1.1, di commento alla disciplina agevolativa di regolarizzazione prevista dall'art. 3 co. 68 - 76 della L. 662/96). Risulta, quindi, pacifico che il reddito prodotto dalla società in argomento dalla data di continuazione dell'attività fino al 31.12.2008 sia da imputare ai soli tre soci.
Resta da chiarire in che modo debbano essere ripartiti tali utili tra i componenti della compagine sociale a seguito dell'introduzione nell'atto costitutivo dell'ottobre 2008 di una clausola che prevede una ripartizione degli utili non proporzionale alla partecipazione dei soci al capitale sociale.
In materia di redistribuzione della quota di partecipazione agli utili societari senza il subentro nella compagine societaria di un soggetto terzo, trova applicazione l'art. 5 co. 2 del TUIR secondo cui le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate ai valori dei conferimenti dei soci se non risultano determinate diversamente dall'atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all'inizio del periodo d'imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali (si veda anche Fortunato N. "Le modifiche della compagine sociale nelle società tassate per trasparenza: spunti per una riflessione sistematica", Rassegna Tributaria, 6, 2005, p. 1868).
Il tenore letterale della norma consente di ritenere che, se, nel corso dell'anno, ferma restando la compagine sociale, è stata modificata la misura delle quote di partecipazione agli utili, gli effetti dell'atto pubblico da cui risultano le nuove quote di partecipazione agli utili si produrranno dal periodo d'imposta successivo. Ciò in quanto l'ultimo periodo del co. 2 dell'art. 5 del TUIR conferisce valenza generale all'unico mezzo di prova previsto per il riconoscimento di quote di utili diverse da quelle legali, con il risultato che, ai fini fiscali, non sarebbe ammessa una società irregolare con una suddivisione del capitale sociale in parti diseguali (si veda anche Leo M. "Le imposte sui redditi nel testo unico", Giuffrè, Milano, 2007, p. 88).
Considerato che la società costituita tra i figli del de cuius nasce come irregolare (società di fatto), la clausola introdotta in sede di regolarizzazione della società secondo cui gli utili sono ripartiti in proporzione diversa rispetto alla ripartizione del capitale sociale costituisce una pattuizione successiva alla costituzione della società ed intervenuta nel corso dell'anno. Infatti, sulla scorta di quanto affermato dalla citata C.M. 29.5.97 n. 147/E (pur con riferimento ad una disciplina speciale) e in dottrina (E. L. "Rubrica dei quesiti", Il fisco, 48, 2007), la "trasformazione" della società di fatto in società in accomandita semplice non pare configurare un atto costitutivo, ma soltanto un atto volto a conferire regolarità alla preesistente realtà sociale.
Si applica, pertanto, l'art. 5 co. 2 del TUIR ai sensi del quale l'atto che prevede la ripartizione in parti diseguali degli utili assume efficacia dalla "data anteriore all'inizio del periodo d'imposta". Nel caso in esame, quindi, la clausola di modifica della ripartizione degli utili tra i soci convenuta nell'ottobre 2008 assume efficacia, ai fini fiscali, a partire dal periodo d'imposta 2009.
In conclusione, si ritiene che i tre figli del de cuius, si vedano ripartiti in parti uguali gli utili prodotti dalla società dalla data di continuazione dell'attività fino alla data del 31.12.2008, ossia in proporzione alla propria quota di partecipazione al capitale sociale.
 
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